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Anniversari / Jim left handler guitar hero

di Alessandro Arioldi                                       

 

«Jimi era stato vestito di broccato di seta verde e aveva l’aria tranquilla e pacifica, quasi come se stesse dormendo o semplicemente pensando con gli occhi chiusi al suo prossimo progetto musicale. È così che mi piace immaginarlo a distanza di cinquant’anni».

È la commossa testimonianza di Leon Hendrix, che il 18 settembre di quest’anno ha ricordato il giorno in cui, cinquant’anni fa, terminava il suo passaggio terreno, a soli 27 anni, James Marshall, “Jimi” Hendrix, il caro fratello maggiore che nell’infanzia gli aveva fatto da padre dopo la scomparsa prematura della madre.

Un musicista, Hendrix, che nell’arco di nemmeno un lustro di attività ha lasciato un segno indelebile nella storia della popular music, rivoluzionando il modo di interpretare la chitarra nel rock.

Jimi inizia a suonare da autodidatta e si forma musicalmente sui dischi blues di Robert Johnson e B.B. King, Muddy Waters e Howlin’ Wolf, Elmore James e John Lee Hooker, sino a quando potrà dedicarsi a tempo pieno all’approfondimento del suo straordinario e intuitivo talento musicale; riesce a imprimere una poderosa sferzata creativa alla storia del rock senza aver mai imparato a leggere e scrivere la musica, desiderio che peraltro esprime tra i tanti, frenetici impegni nei suoi ultimi mesi di vita.

Il suo innovativo modo di suonare, una nuova commistione di blues e rock’n’roll, conferendo una selvaggia aggressività alla sua Fender, colpisce e attrae la scena musicale londinese della metà degli anni ’60, ponendolo sotto i riflettori e calamitando l’attenzione anche di manager senza scrupoli.

La “Jimi Hendrix Experience” miete strepitosi successi con i suoi concerti sempre affollati, mettendo in risalto le straordinarie capacità compositive e la fantasia senza limiti di Jimi, che si esprime anche nel look stravagante, nell’eccentrico abbigliamento e nelle movenze istrioniche sul palco.

Il suo modo di suonare stravolge i canoni dell’epoca e lo portano a rivoluzionare lo stile, la tecnica e le possibilità della chitarra elettrica, soprattutto nell’uso del feedback e dei distorsori, ma anche attraverso una spontanea teatralità, che grazie al suo virtuosismo, rende leggendari i suoi concerti dove suona con i denti, o tenendo la chitarra dietro la schiena.

Il culmine delle sue esibizioni avviene nel 1967 al festival di Monterey, quando al termine della sua performance ripone la sua Stratocaster sullo stage, la cosparge di liquido e gli dà fuoco; ma anche nella mitica tre giorni di pace amore e musica nell’estate del 1969 a Woodstock, dove con la sua Star spangled banner stravolge l’inno americano e sottolinea la sua contrarietà ai conflitti, imitando con i suoi suoni distorti e lancinanti il lancio delle bombe al napalm nella guerra in Vietnam.

Nel settembre 1970, appena dopo la tragedia, si alza un becero polverone, un eccesso di notizie distorte, da cui si deduce il clima del circo mediatico, tra depistaggi e pettegolezzi, risentimento e disinformazione.

Per citarne alcuni, questi i titoli delle testate giornalistiche italiane del periodo: “Improvvisa morte a Londra del cantante-chitarrista negro, Stroncato dalla droga a 24 anni Jimi Hendrix, idolo degli hippies”, “La droga uccide Hendrix il re della musica pop”, “Ucciso dagli stupefacenti in casa di amici. Jimi Hendrix muore a Londra”, “A Londra a 24 anni. Ucciso dalla droga il cantante pop Jimi Hendrix”. Mentre le testate estere sottolineavano all’unisono: “Jimi Hendrix dies of drug overdose”.

Se ne rileva che l’opinione diffusa è quella dell’artista drogato e dissoluto, irregolare e vizioso, il rocker dannato per il quale la vita è un continuo tormento e che non avrebbe potuto fare altra fine.

 

 

Per liberare il cielo dalle tetre nubi della maldicenza, citiamo il referto dell’esame autoptico che, stilato nei giorni successivi al drammatico epilogo, ha escluso “segni di tossicomania e non ha rilevato traccia di altre droghe, ma una consistente percentuale di barbiturici nel sangue”.

Probabilmente l’eccessivo stress dovuto a una fitta agenda tra tournee, interviste e impegni in sala di registrazione lo avevano condotto a un estremo bisogno di stacco e di riposo, che pensava di ottenere con i barbiturici; la dose gli è stata però fatale e non gli ha consentito di riprendersi dal malore avuto. La vera causa della morte fu asfissia causata da inalazione di vomito; si può quindi parlare di una tragica, maledetta fatalità che ci ha purtroppo privati prematuramente di uno dei più grandi e influenti rappresentanti della musica del Novecento.

Al funerale di Jimi c’erano molti tra amici e musicisti, ma la partecipazione più sorprendente fu quella di Miles Davis, sempre restio a mostrarsi in luoghi pubblici che non fossero quelli della musica, confermando che forse si stava concretizzando una loro collaborazione e chissà quale magia avrebbe potuto diffondere.

Jimi era un figlio di quella America che non sarebbe piaciuta a Trump: un ragazzo patriottico a suo modo, ma critico, scomodo che sicuramente oggi avrebbe sostenuto il Black Lives Matter e gli altri movimenti di libertà ed eguaglianza sociale, come traspare da una delle sue frasi più famose: «Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere si avrà la pace».

Gli afro-americani, che avevano già perso per morte violenta sia l’apostolo Martin Luther King, che il leader del loro orgoglio Malcom X, perdono anche colui che aveva restituito la paternità nera al rock’n’roll.

La morte di Hendrix, seguita 16 giorni dopo da quella di Janis Joplin e nove mesi dopo da quella di Jim Morrison, chiude un’era: quella dei raduni oceanici, della contestazione in musica, della psichedelia senza confini, del rock dell’utopia estrema.

Fortunatamente rimane la musica, quella che vale e che rende immortale il suo autore, per la profondità del suo pensiero e il desiderio di esprimere la sua arte e la sua creatività.

Non ci resta che dare ascolto al pensiero hendrixiano ricordandolo con il suo amichevole consiglio: «Quando non ci sarò più, non smettete di mettere i miei dischi».

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