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Carla Voltolina, una resistente libera come la Costituzione

di Sara Marsico

Tra le tante partigiane che si sono distinte nella Guerra di Liberazione ci piace ricordare Carla Voltolina, figura interessantissima ed anticonformista, le cui scelte di vita sembrano contenere i principi della Costituzione, quelli veri, che spesso si dimenticano. Una donna libera, appassionata, indipendente al punto da sembrare quasi nostra contemporanea.

Era nata a Torino, il 14 giugno del 1921, da madre di forti tradizioni socialiste e padre simpatizzante del Fascio. Si era dedicata allo sport ed era diventata una vera atleta, impegnandosi nel nuoto, vincendo a 12 anni un campionato nazionale. Alta, statuaria, aveva una bellezza che non passava inosservata.

La prima scelta che ci colpisce è l’interruzione degli studi di ragioneria nel 1938. Gli studi tecnici probabilmente non l’appassionavano, ma non fu di secondaria importanza in questa decisione l’emanazione delle leggi razziali che avranno certamente reso ancor più insopportabile e opprimente il clima che si respirava a scuola.

Voltolina si mise a lavorare per rendersi economicamente autonoma e cominciò a seguire le proprie inclinazioni, appassionandosi al teatro, a cui l’introdusse Raf Vallone, un amico un po’più grande di lei, e alla psicologia, grazie a Giovanni Bollea.

Queste due amicizie maschili saranno sembrate quanto meno eccentriche per una donna in un periodo in cui, non dimentichiamocelo, il destino di moglie e madre era quasi segnato e non era previsto che le menti delle donne potessero avere l’esigenza di un confronto e di uno scambio con uomini che non fossero quello a lei destinato in matrimonio.

Quando nel 1943 la sua famiglia decise di sfollare, non la seguì. Si avvicinò invece agli ambienti antifascisti e socialisti e a un gruppo di giovani federalisti europei, tra cui Eugenio Colorni, uno degli estensori del Manifesto di Ventotene, che ebbe grande influenza su di lei. Voltolina divenne militante antifascista e poi entrò nella Resistenza.

La sua fu una “guerra senz’armi”; anche nelle situazioni di maggiore pericolo non fu mai armata e rifiutò di farsi chiamare staffetta partigiana, indispettita dalla connotazione che ne metteva in luce la subalternità. Preferì essere indicata come ufficiale di collegamento, definizione che metteva in luce le responsabilità e i rischi che lei stessa corse nell’operazione di supporto allo sbarco degli alleati ad Anzio. Per colpa di una spiata cadde in mano ai tedeschi che le fecero molto male ma da cui riuscì a scappare in modo insperato. L’esperienza la segnò profondamente ma non le fece interrompere la lotta partigiana.

Chiamata dalla segreteria del partito a guidare a Milano un dirigente socialista nel Clnai conobbe Sandro Pertini, che ne fu affascinato e ne apprezzò l’entusiasmo e il coraggio, anche durante l’occupazione socialista della Bocconi, per cui fu ricercata dalla polizia e si rifiutò di scappare in Svizzera.

La relazione sentimentale tra i due iniziò in quegli anni e segnò tutta la loro vita. Una coppia senza figli felice: un’altra testimonianza in direzione ostinata e contraria rispetto al pensare comune. Anticonformista anche in questa scelta, osteggiata dai suoi genitori, sposò con rito civile Sandro Pertini, di 25 anni più grande di lei, l’8 giugno a Roma.

Non prese mai il suo cognome, mantenendo il proprio fino alla morte del marito, quando invece decise di aggiungerlo al suo.  Il matrimonio tra i due fu una storia bellissima, con spazi di autonomia per i diversi interessi dei due. Facevano vacanze separate, proprio perché a lei piaceva il mare e a lui la montagna.

Li univano un forte senso morale e la comune passione politica. Si rifiutò sempre di fare “la moglie di” o la first Lady, figura che mal si concilia con il nostro sistema parlamentare.

Voltolina nell’arco della vita politica di Pertini assunse una serie di decisioni che avevano tutte una stessa cifra: non volere occupare certi ruoli perché moglie di, non utilizzare trattamenti preferenziali per la sua posizione di moglie di un personaggio politico che divenne dapprima Presidente della Camera dei deputati e poi Presidente della Repubblica.

Rifiutò la laurea facilitata che la Bocconi le offriva per i suoi meriti di combattente, si dedicò al giornalismo, anche per la rivista Noi donne e fu collaboratrice della senatrice socialista Lina Merlin, impegnata nella battaglia per la chiusura delle cosiddette case chiuse e per la cancellazione della sigla “N.N.” dai certificati dei figli nati furi dal matrimonio.

Con Merlin condusse un’inchiesta sulla condizione delle prostitute negli ospedali, nelle prigioni e nelle case di tolleranza e pubblicò con lei, firmandosi col cognome della madre, Barberis, il volume Lettere dalle case chiuse (1955), che denunciava la drammatica condizione di sfruttamento delle prostitute, doppiamente oppresse, dai “protettori” e dallo Stato, che ne legalizzava quello che più tardi, in anni a noi vicini, sarebbe stato definito “Stupro a pagamento”.

Voltolina rinunciò al posto di giornalista parlamentare quando il marito divenne Presidente della Camera dei Deputati. Seguendo le sue inclinazioni si iscrisse alla facoltà di Scienze politiche usando il suo nome da nubile e proseguì gli studi in psicologia, dedicandosi poi alla cura dei tossicodipendenti e dei malati mentali.

Non volle abitare al Quirinale, che suggerì al marito di considerare il suo ufficio da cui tornare a casa in un contesto più riservato e famigliare, in una mansarda di 35 metri quadrati vicino a Piazza di Trevi. Da una mia conoscenza personale so che non volle mai approfittare dei privilegi e dei servizi del Quirinale e che portava le camicie del marito in una tintoria di Roma, pagandone il servizio e non addossandolo al bilancio dello Stato.

Era fiera dell’immagine del marito, il partigiano Presidente, amato e vicino ai giovani, ma si ritagliò una vita professionale propria, soprattutto a Firenze. Pare amasse dire «Il mio Quirinale è una camera in ospedale con persone che soffrono».

Si avvicinò anche alla sua antica altra passione, il teatro. Gli ultimi anni della vita con Pertini non furono facili anche per il clima politico italiano e dopo la sua morte ne difese la memoria, con una Fondazione a lui dedicata, anche quando in uno sceneggiato televisivo sul Giovane Pertini si fece riferimento ad un’antica fidanzata. Voltolina si oppose a che fosse diffuso e siamo in pochi ad averlo visto.

Non si iscrisse più al Partito Socialista, ma restò fedele ai principi che aveva condiviso con Colorni e Pertini. Poco prima di morire, nel 2005, donò al Museo dell’automobile di Torino la 500 rossa con cui accompagnava il Presidente per le vie di Roma.

Nel marzo 2020 è stata intitolata a suo nome una passeggiata nella città di Firenze. L’eredità che ci ha lasciato sta nell’attenzione ai conflitti di interesse e nella determinazione a non usare della propria posizione per ottenere vantaggi personali, purtroppo in Italia sconosciuta ai più, in ogni ambiente e soprattutto ha insegnato alle donne che non si è mai prima di tutto “la moglie di” qualcuno, ma che tutte abbiamo diritto al «pieno sviluppo della persona umana» (articolo 3 della Costituzione), cioè a una vera parità di genere.

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