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Di salami, caci e uova – 3a puntata

di Roberto Silvestri

Continua la nostra chiacchierata sugli allevamenti intensivi e sul consumo di prodotti di origine animale. Qui e qui il link agli articoli precedenti.

Problema: se al mondo siamo otto miliardi e la produzione annuale di cibo basterebbe a sfamarne dieci, come mai oltre un miliardo di persone va a dormire con lo stomaco vuoto?

Semplice, perché i 2/3 delle terre fertili sono utilizzati per produrre cibo per gli animali e l’uso del terreno dedicato all’allevamento degli animali è meno efficiente di quello destinato all’agricoltura. Ci ricorda Jeremy Rifkin che se queste risorse fossero destinate all’alimentazione umana ci fornirebbero “l’equivalente di una ciotola di cibo per ogni essere umano del pianeta per un intero anno”.

Quando mangiamo una piccola bistecca, un etto di carne, e abbassiamo lo sguardo al nostro piatto vediamo un chilo e mezzo di vegetali

La continua e crescente richiesta di cereali e legumi ne mantiene alto il prezzo, penalizzando i poveri, uomini e paesi, e contribuendo in maniera rilevante al problema della fame nel mondo.

Un modo di alimentarsi socialmente poco sostenibile, oltretutto associato ad un sistema economico che produce cibo, scadente, dando lavoro a poche persone, che inquina e consuma il nostro territorio, che provoca danni alla nostra salute. La contropartita di tutto ciò è l’arricchimento della grande industria, anche grazie ai sussidi europei pagati con le nostre tasse, sussidi che il parlamento europeo ha appena deciso di continuare ad erogare a prescindere da come viene coltivato il cibo. E gli allevamenti intensivi fanno, ovviamente, la parte del leone.

Ma continuiamo la nostra riflessione cambiando ottica, pensiamo alla nostra salute, cosa quanto mai importante in questo periodo difficile.

Lo sappiamo, e ce lo sentiamo ripetere ogni giorno: quando si vive in comunità le malattie si trasmettono rapidamente. Pensiamo allora con quale rapidità potrebbero contagiarsi gli animali in un allevamento intensivo: centinaia, migliaia, milioni nel caso dei gamberetti, concentrati in uno spazio ristretto. Il rischio di malattie infettive è altissimo e questo è un rischio che non si vuole correre. E non si possono mettere le mascherine, quindi via con l’uso di antibiotici, anche senza che ve ne sia bisogno reale. Questo è vietato, ma poi… chi controlla?

Allevamento di maiali nel lodigiano. Foto di © Adriano Carafòli

Questa pratica ha però gravi conseguenze: i farmaci restano nei tessuti degli animali e arrivano nel nostro piatto. E nel piatto arrivano pure batteri resistenti agli antibiotici.

Proprio l’abuso di questi farmaci in zootecnia è all’origine del fenomeno della antibioticoresistenza, quintuplicata dal ‘92 a oggi, che da venti anni preoccupa gli scienziati.

Un’altra grave malattia è partita dagli allevamenti intensivi, il morbo della mucca pazza, causato dall’uso di farine animali per nutrire i bovini. Oggi accordi internazionali per la liberalizzazione degli scambi commerciali tra stati potrebbero far tornare sulle nostre tavole carni di erbivori alimentati con derivati animali. Quando mai impareremo?

Ma non è ancora finita, gli allevamenti intensivi hanno un impatto negativo anche sull’economia. Fanno scomparire l’allevamento tradizionale, con conseguenze disastrose sull’occupazione e sulle condizioni di vita delle popolazioni locali, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo.

Un caso emblematico è quello dell’allevamento di gamberetti nel sud est asiatico dove, su stimolo della Banca Mondiale, sono stati impiantati mega impianti di acquacoltura. L’inquinamento prodotto, sia nelle acque sia nella fascia costiera, ha distrutto l’economia di sussistenza di cui viveva la popolazione locale. In più ha distrutto la foresta di mangrovie, oasi della biodiversità del territorio e barriera alla furia del mare. Quando è arrivato lo tsunami ha trovato la strada libera. Come afferma Vandana Shiva, “è molto costoso mangiare gamberetti a poco prezzo”.

All’origine di tutti questi sconquassi c’è la moderna rete distributiva, che ha contribuito in modo pesante alla nascita delle moderne fabbriche di animali e di fatto ha tagliato i legami tra il piccolo commerciante e gli altrettanto piccoli produttori.  

Ricordiamocene quando andiamo a fare la spesa.

E ricordiamoci pure che un cibo deve avere un prezzo equo e non semplicemente costare poco. Certo c’è chi non ha soldi, ma anche per lui vale il diritto ad un’alimentazione di qualità, nessuno nasce con l’obbligo di penitenza.

Allevamento di maiali nel lodigiano – Foto di © Adriano Carafòli

Parlando del cibo usiamo termini – valore, costo, prezzo – derivati dall’economia. Il valore di un cibo è la sua capacità di nutrirci e di mantenerci in salute, di darci consolazione e piacere quando lo mangiamo; il prezzo è quanto noi paghiamo per portarlo in tavola, mentre il costo del cibo non è solo quanto si spende per produrlo, ci sono anche costi che vengono trasferiti alla collettività mentre gli utili finiscono tutti in tasche individuali.

Quando diciamo che un hamburger in un fast food costa poco ed uno fatto con carne di animali allevati liberi e nutriti con foraggio e fieno costa molto stiamo cadendo nella trappola delle grandi industrie. In realtà, nel primo caso, paghiamo in modo diretto solo una piccola parte dei costi, il resto lo paghiamo con la distruzione dell’ambiente, con la nostra salute e con le nostre tasse.

Continua…

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