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Francesca Morvillo, la prima e unica magistrata uccisa dalla mafia

di Sara Marsico

Non è facile parlare di Francesca Morvillo, da sempre descritta dai media come “la moglie di” Giovanni Falcone, la donna sulla cui esistenza c’è sempre stato un grande riserbo, anche da parte del magistrato antimafia, probabilmente come forma di protezione nei confronti della persona amata.

Oggi però voglio farlo, soffermandomi sulla storia di una donna bella, brillante e colta, che sapeva divertirsi, nata in una famiglia di magistrati, dove ha respirato il diritto e la giurisprudenza.

Figlia di un sostituto procuratore e sorella di un magistrato, si laurea a pieni voti a soli ventidue anni, all’università degli Studi di Palermo. Solo in tre esami ottiene trenta, tutti gli altri sono con la lode.

Mi piace pensare che avesse una mente sottile e un linguaggio giuridico perfetto, perché so, per esperienza personale, che certi risultati nelle discipline giuridiche non si raggiungono senza uno “studio matto e disperatissimo”, a dispetto di chi, non conoscendolo, ancora sostiene che il diritto è solo studio a memoria (sic).

Morvillo riceverà il “Premio Maggiore” per la migliore tesi di laurea dell’anno in discipline penalistiche.

Stato di diritto e misure di sicurezza è il titolo del suo lavoro, da cui si intuisce l’interesse della studente universitaria palermitana per uno dei più bei concetti delle nostre materie, quello dello Stato di diritto, che confligge  con le misure di sicurezza di mussoliniana memoria, aggiunte alla pena principale in considerazione della pericolosità sociale del reo, laddove la pena, secondo l’articolo 27 della nostra Costituzione, dovrebbe tendere alla rieducazione (risocializzazione) del condannato.

Mi piace pensare che questa giovanissima abbia svolto le numerose attività della sua vita, sia nella professione che nel volontariato, piena di entusiasmo e con la consapevolezza che stava contribuendo a costruire un pezzo di quel bellissimo progetto di società nuova che era la nostra Costituzione.

Dopo la laurea prepara il concorso in magistratura, settore nel quale l’accesso alle donne è consentito solo dal 1963, con quindici anni di ritardo dall’affermazione rivoluzionaria della “piena uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso”, proclamata dalla carta costituzionale. Anche da tale scelta si evince lo spirito coraggioso e di sfida ai luoghi comuni di questa donna mite e determinata, oltre che preparatissima.

Mentre studia per il concorso, insegna all’Istituto penitenziario per i minorenni di Palermo, il Malaspina.

Secondo una delle poche testimonianze che la ricordano, quella della sua amica e collega Maria Grazia Ambrosini, ex presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo: «Aveva un innato trasporto per i giovani. Questo sentimento le consentì una comprensione più profonda della loro personalità, delle problematiche che li investivano e quindi della ricerca delle modalità più idonee per aiutarli a superare i periodi di crisi. Aveva l’esigenza di restituire a ciascun ragazzo la dignità che è propria di ogni essere umano».

Vinto il concorso in magistratura, diventa giudice presso il Tribunale di Agrigento, poi sostituta procuratrice al Tribunale per i minorenni di Palermo, poi consigliera di Corte d’appello.

Sempre secondo Maria Grazia Ambrosini: «(Francesca) aveva una grande dote che dovrebbe essere essenziale in un magistrato, l’umiltà, e il profondo rispetto per i diritti degli altri, per la dignità che vedeva in ogni essere umano con cui entrava in contatto, dal più umile al più autorevole, dal più misero al più degno di considerazione».

Morvillo sarà anche docente di Legislativa del minore presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, nella scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Palermo.

Chissà quali saranno stati i commenti all’ingresso di Francesca nei Palazzi di giustizia che ha frequentato, nella migliore delle ipotesi paternalistici, se non addirittura ironici o irridenti.

Solo pochi anni prima Giovanni Leone, Costituente e principe del foro, futuro Presidente della Repubblica, aveva affermato, nella seduta dell’Assemblea Costituente del 14 novembre 1947, «Ma alle più alte Magistrature, dove occorre resistere e reagire all’eccesso di apporti sentimentali, dove occorre invece distillare il massimo di tecnicità, penso che la donna non debba essere ammessa; perché solo gli uomini possono avere quel grado di equilibrio e di preparazione necessaria per tale funzione».

La storia lo avrebbe smentito clamorosamente, perché dal 1963 le vincitrici di concorso sono continuamente aumentate e dal 2015 c’è stato il sorpasso sugli uomini.

Oggi il 63% dei vincitori di concorso in Magistratura è rappresentato da donne.

Morvillo si sposa ma il suo matrimonio non è felice e quando, nel 1979, a casa di amici, conosce Giovanni Falcone, anche lui in crisi nel suo rapporto coniugale, le due anime si riconoscono e inizia una storia d’amore semiclandestina, mal sopportata inizialmente dalla famiglia Morvillo.

Francesca Morvillo e Giovanni Falcone (ilsussidiario.net)

Falcone è arrivato a Palermo da un anno, chiamato da Rocco Chinnici, dopo l’assassinio del giudice Terranova e del suo agente di scorta Lenin Mancuso, nel 1978. La mattanza palermitana continuerà con l’uccisione del segretario regionale della Dc Michele Reina e del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano. Uno a uno cadranno sotto i colpi dei mitra o delle bombe il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello del nostro Presidente della Repubblica, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il Procuratore di Palermo Gaetano Costa (1980), il segretario regionale del Pci Pio La Torre, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro (1982), il capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia (1983), il commissario Beppe Montana, il dirigente della squadra investigativa di Palermo Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia (1985), l’ex sindaco Dc di Palermo Giuseppe Insalaco, il giudice Antonino Saetta (1988). Insieme a questi saranno uccisi tanti uomini delle forze dell’ordine e ignari passanti.

In quegli anni il giovane Falcone capisce che i tradizionali metodi investigativi non bastano più nella lotta a una mafia che sta sterminando gli uomini dello Stato. Sperimenta altre tecniche, come l’utilizzo dei collaboratori di giustizia, che pretende non siano chiamati pentiti, le cui dichiarazioni dovranno essere avallate da innumerevoli riscontri, la collaborazione con le magistrature di altri Stati e le apparizioni televisive.

Sono quasi certa che in questa scelta avrà il sostegno di una giurista colta ed aggiornata come Morvillo, attratta da una mente acuta e dalla passione di questo palermitano cresciuto nel quartiere della Kalsa.

La mafia, per il giudice Falcone, è da considerare come un’organizzazione complessa, coi suoi vertici, i suoi capi, la sua radicazione capillare sul territorio.  Il giudice istruttore antimafia ha maturato il giudizio, provato dalla sua esperienza, dell’inadeguatezza di un potere giudiziario parcellizzato, suddiviso in cento procure, inefficace e  non coordinato.

Il pool antimafia si forma e lavora senza tregua a scovare i legami e i colpevoli, anche attraverso l’analisi minuziosa dei movimenti di denaro (follow the money), e riesce per la prima volta a incriminare, in un maxiprocesso che passerà alla storia, i capi di Cosa nostra.

Il clima a Palermo è rovente, si vocifera di un attentato a Falcone e Borsellino.  Caponnetto, capo del pool antimafia, a un certo punto, decide di trasferire i due giudici e le loro famiglie nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara. Francesca segue Giovanni, accetta le limitazioni della libertà, come ha da tempo accettato la convivenza con gli uomini della scorta, con grande forza e determinazione, senza far trasparire il suo disagio.

Dopo il rientro a Palermo, nel febbraio 1986 inizia il maxiprocesso che ha visto alla sbarra, per la prima volta nella storia, 475 imputati, tra cui i più alti esponenti delle famiglie di Cosa nostra. L’ordinanza di rinvio a giudizio è perfetta, checché ne dica il giudice ammazzasentenze Carnevale, e nell’aula bunker costruita nel carcere dell’Ucciardone, a prova di attacchi missilistici, per la pericolosità degli imputati, compaiono i collaboratori di giustizia, tra cui il grande accusatore Buscetta, che al giudice Falcone ha fornito informazioni preziosissime sulla struttura di Cosa nostra.

La stampa continuerà a remare contro definendo i collaboratori di giustizia pluriassassini inaffidabili. Due persone come Francesca e Giovanni, tanto preparate, condivideranno il destino dei pionieri e saranno probabilmente tra le poche a capire che la criminalità organizzata per essere sconfitta esige strumenti molto sofisticati e nuove tecniche investigative.

Non mancheranno le critiche della stampa cosiddetta garantista, che definiranno Falcone “giudice poliziotto” con il giubbotto antiproiettile, la scorta e le sirene, sotto i riflettori come un divo.

Quante critiche, anche nel “Palazzo dei veleni”, in cui fin dall’inizio la solerzia di quel Falcone zelante darà fastidio e sarà individuata come la causa principale del freno allo sviluppo e all’economia della Sicilia. E che scarso sostegno dai quotidiani amici, incapaci di spiegare il lavoro prezioso del pool. Credo che per difendere Falcone da questi attacchi immeritati Morvillo sia stata sempre preziosa, con la sua competenza e il suo amore.

I due coniugi magistrati si confronteranno su tutto, sulle perplessità che assillano Francesca quando affronta le difficili situazioni dei minorenni devianti, sui provvedimenti che il giudice antimafia dovrà prendere nei confronti di alcuni tra i più temuti esponenti di Cosa nostra.

Mi piace immaginarli a discutere e a confrontarsi, sia su questioni del quotidiano che su questioni squisitamente giuridiche, come compare dalle poche fotografie che ci sono rimaste, misurando la loro preparazione ed arricchendosi a vicenda, anche attraverso critiche. Francesca sarà vicina al suo uomo nei momenti di solitudine, che saranno tanti, in una vita di sacrificio, sotto scorta, senza poter andare al cinema o a teatro, sacrificando le relazioni personali e amicali, scontrandosi con i vicini di via Notarbartolo che mal sopporteranno le sirene delle auto che riaccompagnano a casa il giudice e scriveranno anche una lettera per chiedere di spostare fuori Palermo questi giudici antimafia “perturbatori della quiete pubblica.”

Nel dicembre del 1987 il maxiprocesso si conclude con un lungo elenco di condanne, tra cui 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Queste condanne, confermate in Appello e in Cassazione, daranno un colpo fortissimo all’organizzazione che fino a quel momento si credeva al di sopra di ogni potere dello Stato e riaccenderanno le speranze dei palermitani per una società in cui forse potranno essere liberi.

Da questo momento, però, Francesca dovrà sostenere Giovanni, confortarlo per i tanti attacchi che gli arriveranno anche da persone che fino a quel momento lo avevano acclamato, dalle accuse di protagonismo e di eccessiva esposizione su media, ma soprattutto dalla più grande delusione che, dopo il ritiro del giudice Caponnetto dal servizio, vedrà il Consiglio Superiore della Magistratura eleggere al suo posto un giudice inesperto di antimafia, Antonino Meli, ostile ai metodi seguiti dal pool, che smonterà pezzo per pezzo.

In un bellissimo docufilm a cura di Alexander Stille, dal titolo In un altro Paese c’è la scena in cui Falcone assiste alla votazione del Csm in cui apprende, con gli occhi lucidi e tristi, che gli è stato preferito Meli come sostituto di Caponnetto.

In un altro Paese Falcone e Borsellino sarebbero stati considerati eroi e invece nei loro confronti comincerà una campagna mediatica violenta. All’interno del Palazzo di giustizia di Palermo si troveranno lettere anonime calunniose contro Falcone, scritte da un fantomatico ”corvo”, che metteranno a dura prova i nervi del giudice e richiederanno a Francesca forza e determinazione nel sostenerlo. Sarà con lui dopo l’agguato all’Addaura, elaborato da “menti raffinatissime” come dirà Falcone, lo inviterà a non tenere conto delle invidie quando si insinuerà che l’attentato se lo sarebbe organizzato da solo, quando infine il clima nel Palazzo dei veleni sarà diventato insostenibile e Falcone accetterà di far parte della Direzione degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia, criticato anche per questo, anche dal “fuoco amico”.

Francesca Morvillo è sull’auto che Falcone ha voluto guidare, per rilassarsi, il 23 maggio del 1992; è tornata dall’Ergife Hotel, dove è commissaria di un concorso per uditore giudiziario, per stare con lui, per godere di quella relazione che caratterizza molte coppie senza figli, in quella «conversazione sempre troppo breve che è un matrimonio felice» (Mauriac).

Muore con lui e con gli agenti della sua scorta della Quarto Savona 15 in quel vile agguato che sembra un’azione di guerra.  Una talpa nell’organizzazione dello Stato ha avvisato Giovanni Brusca dei movimenti del giudice.

Giovanni muore quasi subito dopo essere arrivato all’ospedale, Francesca qualche ora dopo e ha appena il tempo di chiedere: «Dov’è Giovanni?»

Molti hanno commentato la scelta dei due magistrati di non avere figli. Come ebbe a dire Falcone, ben consapevole dei rischi che correva nella sua professione di magistrato antimafia, «Si fanno figli, non orfani» e nell’immaginario collettivo, chissà perché, fu Francesca Morvillo a soffrirne di più. Questa interpretazione, pur legittima, non è avallata dalle testimonianze di chi la conosceva.  Che sia Morvillo che Falcone fossero childless o childfree, come si dice oggi (sempre e solo, però, a proposito delle donne che non diventano madri) non è dato sapere, ma un biglietto, trovato decenni dopo la loro morte, in un libro che Francesca aveva regalato a Giovanni, ci dice forse qualcosa anche in merito a questa scelta della coppia. La brillante studiosa e magistrata scrive: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca».

Perché non pensare che un amore tanto grande bastasse a sé stesso, che il materno dei due giudici si esprimesse in modi diversi da quelli della genitorialità biologica, in Francesca che si dedicava ad ascoltare i devianti minorenni e in Giovanni che aveva messo al servizio della famiglia umana tutta la sua preparazione e la sua intelligenza per sgominare finalmente Cosa nostra, in Francesca quando «partoriva con la mente»(Francesca Rigotti) una lezione per i suoi  studenti e in Giovanni quando scopriva attraverso i movimenti patrimoniali una pista che avrebbe incastrato i colpevoli, in Francesca quando scriveva una sentenza in modo tecnicamente ineccepibile e in Giovanni quando chiudeva con Borsellino l’istruttoria  che avrebbe segnato una pietra miliare nella storia della lotta alla criminalità organizzata?

Sarebbe il caso di ricordare l’esistenza di tante relazioni felici, come quella tra Morvillo e Falcone, invisibili quando si parla di famiglia, spesso compatite da chi non conosce il tesoro unico di certe coppie che non hanno bisogno dei figli per decidere di «amarsi infinitamente nella finitezza del loro tempo» (Gabriele Romagnoli, “Corriere della Sera”, 22 ottobre 2011).

A conforto di questa interpretazione un po’ controcorrente rispetto alla opinione generale e del tutto personale, a Melegnano sono state intitolate due vie, una vicina all’altra, a Giovanni Falcone e a Francesca Morvillo, uniti per sempre.

A Francesca Morvillo è stata attribuita la Medaglia d’oro al valore civile, le è stato dedicato il Centro palermitano di Prima accoglienza per i minorenni, una targa in sua memoria dai ragazzi del Malaspina, una targa nel Tribunale di Agrigento, un Presidio di Libera a Genova in un bene confiscato e tanti altri luoghi in tutta Italia.

La mitezza di questa grande donna, bella e professionalmente eccellente, vicina a un meraviglioso perdente che aveva precorso i tempi, è una virtù che ce la fa amare e sentire vicina e ci fa riflettere sul sacrificio fatto da lei e dai tanti giudici, martiri della nostra Repubblica, per affermare la giustizia e la legalità. Non sarà inutile ricordare che la nostra Repubblica è seconda solo alla Colombia per numero di magistrati uccisi dal terrorismo e dalle mafie (Armando Spataro, Ne valeva la pena). Francesca Morvillo è l’unica donna di questo lungo elenco di persone che hanno sacrificato la vita per contribuire a rendere libera dalla violenza della criminalità organizzata la nostra esistenza.

L’articolo, della stessa autrice, è stato pubblicato lo scorso anno sul blog www.vitaminevaganti.com

In apertura, Francesca Morvillo (formiche.net)

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