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La Dad ci ha insegnato quanto è bella la scuola in presenza

di Sara Marsico

Non è impresa facile parlare di didattica a distanza (Dad), nelle diverse forme in cui si è articolata in questo inizio di anno scolastico. Reduci dal primo lockdown associato al manifestarsi della pandemia, in cui, con orari ridotti delle lezioni, tutta la scuola, nei suoi diversi ordini e indirizzi, si è cimentata con questo nuovo acronimo, affrontando problemi di connessione, digital divide, necessità di rimodulare la didattica e di sostenere psicologicamente alcuni studenti, l’autunno 2020 ci ha trovati tutti un pochino più preparati.

Nonostante gli enormi problemi creati ad alunni, docenti e famiglie, la Dad si è rivelata l’unica soluzione possibile quando il contagio è esploso e non sarà inutile chiedersi che cosa sarebbe successo se una pandemia del genere fosse esplosa non dico “nella preistoria”, quando la sottoscritta frequentava il liceo classico Pietro Verri di Lodi, ma anche soltanto una quindicina di anni fa. Probabilmente l’anno scolastico non si sarebbe potuto concludere e l’unica soluzione possibile sarebbe stata non dare ad esso alcuna validità.

Con l’anno nuovo, per fortuna, ai bambini e alle bambine della primaria è stata garantita la scuola in presenza, come anche agli iscritti al primo anno della secondaria di primo grado (l’antica “scuola media”).

(immagine tratta da consiglio.provincia.tn.it)

Per la secondaria di secondo grado sono state trovate soluzioni diverse dai diversi istituti: alcuni hanno fatto in modo di avere tutte le classi in presenza a giorni alterni, laddove gli spazi e le aule lo consentissero, altri, come la scuola in cui insegno, hanno garantito la presenza in istituto delle classi prime e quinte, consentendo alle altre di frequentare in presenza per metà a settimane alterne, con il collegamento a distanza per la metà della classe che restava a casa (didattica ibrida, o Ddi, didattica digitale integrata).

Improvvisamente, per il riacutizzarsi del contagio, con la seconda ondata della pandemia, siamo ritornati tutti in Dad, mantenendo questa volta l’orario pieno. Da gennaio, al rientro, la situazione cambierà ancora, con una maggiore presenza degli studenti a scuola, compatibile con l’imponente lavoro svolto dai tavoli coordinati dalla Prefettura con le imprese di trasporto e i dirigenti scolastici.

Premesso che, al rientro a settembre, le scuole si sono dotate di protocolli sanitari e di sicurezza ineccepibili, per la necessità di tutelare in primo luogo la salute di studenti e lavoratori della scuola, credo che a questo punto dell’anno sia possibile fare un bilancio sia della Dad che della Ddi. È bene ricordare che in molte scuole erano stati organizzati da anni dei corsi per effettuare la cosiddetta didattica mista, in cui, con adesione volontaria, si poteva apprendere come organizzare una classe virtuale, assegnare e correggere lavori a distanza, utilizzare piattaforme che esercitassero gli studenti sulle conoscenze, come i moduli Google, Kahoot, e altri come Quizzes anche sulle competenze.

Da marzo molti docenti si sono iscritti a corsi online per apprendere nuove metodologie e nuovi criteri di valutazione, dimostrando grande flessibilità e capacità di apprendimento. Del resto, un buon docente è prima di tutto un apprendente e solo chi è curioso intellettualmente può trasferire ai suoi studenti la stessa curiosità.

(immagine tratta da Twitter)

Tuttavia non si può non rilevare che la vera scuola è solo quella in presenza. La relazione, che è alla base di ogni rapporto educativo, fatta di sguardi, rassicurazioni, incitamenti, correzioni, con la Dad e in parte con la Ddi, sono venute meno, come pure la socializzazione e il confronto con i compagni di classe.

Ce lo hanno ricordato in ogni forma ed occasione proprio gli studenti, provati psicologicamente da questa situazione e desiderosi di rientrare a scuola prima possibile.

Per molti di noi interagire con uno schermo non è stato facile, valutare nelle forme tradizionali assolutamente improponibile, cimentarsi in nuovi modi di valutare impegnativo anche se a volte stimolante.

I nostri alunni più fragili, però, sono inevitabilmente rimasti indietro, come i più timidi e riservati, e i meno motivati si sono persi più facilmente. Non sempre siamo stati capaci di coinvolgerli come invece ci sarebbe riuscito in presenza. Molti studenti poi hanno perso nonni e parenti, si sono ammalati con le loro famiglie e ne hanno risentito psicologicamente, oltre che scolasticamente.

Questa pandemia ha insegnato a tutti che la scuola, tanto vilipesa, è centrale nella società italiana e ne ha messo in luce tutte le carenze, dovute a decenni di tagli al personale e agli orari scolastici, di classi pollaio, di risorse sempre più ridotte e di risparmi di spesa.

Quando eravamo molto giovani, appena entrati in ruolo, ci eravamo illusi che il calo demografico avesse, come unica conseguenza positiva, il mantenimento dello stesso numero di corsi e di classi con un numero minore di persone. Già intuivamo la difficoltà di seguire i meno fortunati, in classi troppo numerose.  Avremmo in tal modo potuto dedicarci a tutti, anche ai più fragili, con classi di quindici persone che, come sosteneva fin da allora il professor Galimberti, rappresentano il numero ideale perché si possa parlar di scuola veramente inclusiva e di insegnamento individualizzato, quando al suo interno ci sono stranieri di diversa provenienza e persone con bisogni educativi speciali.

Chissà cosa sarebbe potuto succedere se avessimo avuto classi così composte in periodo di pandemia. Forse sarebbero bastati orari differenziati e ingressi e uscite separati per mantenerli tutti in presenza, anche nelle scuole superiori, che più di tutte hanno pagato lo scotto di questa pandemia.

Mai come in questo periodo si sono trovate tante risorse per la scuola ed è bene riconoscerlo. È di questi giorni la notizia di nuovi fondi per la Ddi e per lezioni di recupero al pomeriggio. Peccato che a valorizzare anche dal punto di vista economico la scuola si sia arrivati non per la consapevolezza dell’importanza strategica dell’istruzione per lo sviluppo del Paese e la costruzione di un vero senso civico, ma, come spesso accade in Italia, per una situazione di emergenza.

Un’altra lezione dalla pandemia.

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