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Le arancine. Storia di ricette e globalizzazione culinaria

di Luciana Scaglione e Marco Crisanto

Sono stata adottata da Melegnano 54 anni fa. Anche se l’inizio non è stato semplice, mi sono rimessa in discussione, ho accettato la sfida che la vita mi ha presentato stimolandomi e ho vinto: ho imparato il dialetto, sono quasi diventata meregnanina. Sebbene abbia vissuto più qui che in Sicilia, devo, però, ammettere che l’imprinting lasciato su di me dalla mia terra non si è mai dissolto e non ho dimenticato le mie tradizioni, le mie origini.

Perché questo prologo?

Perché lo scorso articolo l’ho dedicato alla cassœula, un omaggio alla città in cui sono cresciuta. Ora, invece, voglio rendere onore ai miei concittadini, colleghi meridionali doc o “derivati”, che per necessità o per la ricerca di nuove opportunità, si sono trasferiti al Nord.

Continuando, quindi, col percorso culinario intrapreso, e visto che quella del cibo è la lingua più parlata al mondo, vi parlo dell’arancina o arancino. Scegliete voi come chiamare la succulenta pietanza, perché non è stata ancora risolta la prima diatriba che la riguarda: fra i fautori della declinazione del nome al maschile (parte orientale della Sicilia con l’eccezione di Ragusa) e coloro che preferiscono il termine al femminile (parte occidentale)

In teoria, il nome dovrebbe essere formulato al femminile, in quanto l’arancina richiama per colore, là dove la forma preferita è a palla, l’arancia. Tuttavia, in siciliano, i frutti frequentemente seguono il genere maschile e nel caso specifico l’arancia viene detta arànciu; pertanto originariamente veniva usato il termine al maschile, cioè arancinu.

Persino l’Accademia della Crusca è stata disturbata sull’argomento, e si è salomonicamente espressa per la correttezza di entrambe le diciture (secondo me per non inimicarsi o scontentare nessuna delle due fazioni).

Per comodità, essendo di Ragusa, la declinerò al femminile.

Ma partiamo dall’inizio.

Stiamo parlando di una palla o di un cono di riso, secondo la forma che più piace, che viene farcita al suo interno, impanata e fritta. L’arancina è farcita generalmente con ragù, piselli e caciocavallo. Alla versione originale si sono via via aggiunte interessanti, ottime varianti. Sono nate quindi le versioni: al prosciutto cotto e mozzarella; al pistacchio; alle verdure (melanzane e spinaci, soprattutto) e persino versioni dolci con cacao o cioccolato (queste ultime sono a mio avviso un deludente accanimento terapeutico).

Seconda annosa diatriba, come si diceva prima, è la forma che si vuole dare all’alimento.

Va precisato infatti che nella Sicilia orientale per le arancine è più gradita la forma conica simboleggiante l’Etna: tagliando la punta della pietanza appena cotta esce il vapore che ricorderebbe il fumo del vulcano, mentre la superficie croccante della panatura e il rosso del contenuto ne rievocherebbero la lava nei suoi due stadi, calda e fredda; in quella occidentale si predilige, invece, la forma ad arancia in quanto questo frutto è rappresentativo della zona e largamente coltivato nel territorio chiamato “la Conca d’Oro”.

Terza questione, altrettanto discussa, è l’origine dell’arancina. Non si hanno certezze; quindi si ritiene, data la presenza di zafferano nella pietanza e viste le profonde influenze arabe, di orientarsi verso la provenienza saracena.

La cultura araba durante la dominazione in Sicilia (dalla fine del IX secolo alla fine del XI secolo) si è integrata con la cultura dell’isola e ne ha rivoluzionato la cucina introducendo alimenti fino ad allora sconosciuti come riso, sesamo, arance, fichi d’india, pistacchi. Nel Medio Evo sarebbe stata introdotta nell’isola l’usanza di consumare riso e zafferano condito con erbe e carne.

L’introduzione della panatura pare risalga, invece, quando a regnare era Federico II di Svevia (gli Svevi altri dominatori in Sicilia). Intorno al 1100, con la panatura, trovarono il sistema per portare la pietanza con sé durante viaggi e battute di caccia (praticamente le prime schiscette).

La croccantezza, infatti, assicurava un’ottima conservazione del riso e del condimento, oltre a una migliore trasportabilità. Si è supposto che, inizialmente, l’arancina fosse prevalentemente utilizzata come cibo da asporto, specialmente tra coloro che lavoravano in campagna. Praticamente l’arancina fu la “precursora” dello street food.

Oggi l’arancina è considerata dai Siciliani il prodotto di rosticceria più caratteristico della propria regione e quasi tutte le grandi città dell’isola ne rivendicano la maternità.

Nella letteratura appaiono diversi riferimenti a questo prodotto gastronomico: per citarne uno famosissimo, il personaggio dei romanzi di Andrea Camilleri, il commissario Montalbano, nella finzione letteraria noto estimatore di questo piatto, è il più popolare tra essi e la prima raccolta dell’autore siciliano dedicata al detective è intitolata “Gli arancini di Montalbano”. Nel romanzo l’autore esalta la passione del commissario per tale pietanza, che lui chiama, però, al maschile.

Grazie al fenomeno della emigrazione di siciliani all’estero, si ebbe la diffusione di questo prodotto nel mondo: i siciliani fondarono rosticcerie nei luoghi in cui si stabilirono portando con sé i prodotti della loro regione (Luciana Scaglione).

Per la ricetta si rimanda ai numerosi tutorial su Internet 

Il vino da abbinare

Quale vino possiamo abbinare agli arancini? Partiamo dal considerare la complessità dei sapori data dai vari ingredienti: dalla nota aromatica dello zafferano e del riso, al sapore della carne fino alla traccia oleosa che lascerà la frittura.

La scelta preferibile è un vino rosso fermo e di media struttura. Consigliabile è un Nero d’Avola per contiguità territoriale con la ricetta oppure un Cabernet Franc dei Colli Euganei.

Il Nero d’Avola è un vino dal colore rosso scuro molto caratteristico per i suoi sentori dominanti di viola insieme a note balsamiche di eucalipto; mantiene sempre una buona freschezza e una impressione complessiva di dolcezza.

Un Cabernet Franc vinificato in purezza di solito trasmette note di violetta e di piccoli frutti rossi, se invecchiato qualche anno aggiungerà anch’esso note balsamiche. In generale in bocca avremo un gusto ampio e rotondo connotato da una freschezza vivace.

Sia per gli irriducibili delle bollicine come per chi volesse un abbinamento originale ma che riserverà sorprese al palato, è consigliabile un Franciacorta Sàten.

La denominazione “satèn” è esclusiva della Franciacorta ed è caratterizzata da una inferiore pressione in bottiglia e dalle uniche note di sapidità e freschezza, armonizzate da una spuma morbida e setosa. Esiste solo nella tipologia Brut.

Da buon street food gli arancini mangiateli pure con le mani, ma il vino bevetelo sempre in un bicchiere di vetro (Marco Crisanto).

Immagine di copertina, foto di Enzo Rippa da Wikipedia

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