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Salvare la biodiversità per salvare il futuro

di Roberto Silvestri

Immagina di abitare un mondo in cui siano presenti solo una decina di biotipi umani.

Immagina otto miliardi di persone tutte simili a te, a me e a pochi altri. Ognuno con manifestazioni anatomiche, umorali, funzionali, psicologiche identiche. Non sarebbe il mondo di uguali a cui molti di noi aspirano ma un mondo di replicanti.

Ogni biotipo si comporterebbe in modo uguale agli attacchi esterni, un nuovo batterio, una nuova malattia rischierebbe la sua estinzione.

Nessun grande scrittore di fantascienza riuscirebbe a rendere questo pianeta interessante.

Ebbene, questo mondo da incubo noi lo abbiamo costruito. È quello che quotidianamente, con le nostre scelte alimentari, portiamo sulle nostre tavole.

Uno studio della FAO ha rilevato che il genere umano utilizza per il 90 per cento della propria alimentazione di origine animale solo 14 specie e che delle circa 7.000 specie vegetali utilizzabili per l’alimentazione solo 150 vengono coltivate. Tra queste dodici forniscono all’organismo il 75% della sua energia di origine vegetale e solo quattro – grano, mais, riso e patate – contribuiscono per il 50%

In più, all’interno di ogni specie le varietà coltivate o le razze allevate sono sempre meno: l’agricoltura moderna spinge i produttori alimentari all’utilizzo di sottospecie ad alto rendimento. Nell’ultimo secolo sono scomparsi tre quarti delle diversità genetiche delle colture agricole e un quarto degli animali sono in pericolo di estinzione o già estinti.

Nel 2004 un documento della FAO ammoniva: “Questa rapida diminuzione della diversità genetica preoccupa gli esperti. Una vasta gamma di caratteri distintivi permette a piante e animali di adattarsi a mutate condizioni esterne e fornisce agli scienziati il materiale di base necessario per ottenere varietà di raccolti e di allevamenti più produttive e resistenti. Gli agricoltori hanno bisogno, più che di una singola varietà ad alto rendimento, di colture diversificate che crescano bene anche in climi avversi o di animali resistenti alle malattie”.

AN GORTA MOR – La Grande Carestia

Irlanda 1845/1849. Un disastro di proporzioni bibliche: in pochi anni la popolazione irlandese si ridusse di un terzo: un milione di morti e due milioni di emigranti.

Dublino, The Famine Memorial, scultura di Rowan Gillespie – Foto dal Morning Star

Due sono le cause di questa tragedia, entrambi responsabilità dell’uomo ed entrambi derivate dall’avidità. In un caso, comprensibile e giustificabile, i contadini poveri, che avevano come solo nutrimento le patate, iniziarono la coltivazione quasi esclusiva di una varietà altamente produttiva ma purtroppo fragile davanti agli attacchi dei parassiti.

Alcune delle oltre tremila varietà di patate andine.

Nel settembre del 1845 un fungo distrusse l’intero raccolto, trasformando i tuberi in un pastone marcescente, inadatto anche all’alimentazione del bestiame.

L’altra avidità è quella, da sempre conosciuta, dell’imperialismo e del dominio coloniale. L’Irlanda produceva cibo a sufficienza per nutrire il doppio dei suoi abitanti ma i grandi possidenti inglesi non intendevano rinunciare ai loro pingui utili e continuarono i consueti commerci. Tutti i tentativi di impedire l’esportazione del grano furono duramente repressi.

Certo, viene da pensare, queste cose succedevano centosettant’anni fa. Allora la tecnologia e la scienza non erano in grado di risolvere questi problemi come saprebbero fare oggi.

Stati Uniti, 1970

La nebbia del granoturco ha distrutto il 50% della produzione di mais con un danno di mille milioni di dollari. Una vecchia varietà la resistente a questa malattia ha salvato la produzione.

Negli stessi anni il virus del rachitismo ha devastato le risaie dall’India all’Indonesia: dopo una ricerca di quattro anni un campione di riso resistente trovato nelle campagne a nord dell’India ha eliminato la malattia.

In entrambi i casi soltanto la disponibilità di vecchie varietà autoctone, conservate da generazioni di contadini in aree marginali, ha salvato dal disastro colture alimentari vitali. In entrambi i casi la resistenza alle malattie è stata trovata nelle campagne di Paesi in via di sviluppo, dove la biodiversità è ancora forte e viva.

Entro il prossimo decennio la banana Cavendish, che rappresenta il 95% della produzione bananiera, potrebbe estinguersi, come già successe negli anni ’50 alla varietà Gros Michel. Questa varietà di banana pecca di diversità genetica che la rende vulnerabile a malattie. Con le banane sono a rischio di estinzione ben 1500 varietà di frutta.

Come abbiamo visto la perdita di biodiversità non genera solo noia, questo mondo da incubo rischierebbe di diventare presto vuoto e desolato.

Il nostro campo d’azione è dunque la biodiversità agroalimentare, un pezzetto di quella più vasta e generale. Ma se contro la distruzione delle foreste pluviali non possiamo che opporre un generico rifiuto, un appello al buon senso, sulla sparizione di prodotti, varietà, razze, tecniche colturali e artigianali – non solo in Europa ma anche nel mondo sottosviluppato – possiamo ancora fare molto. Non è troppo tardi per abbandonare l’agricoltura massiva e semplificatrice e sostenere l’universo della tipicità e della sostenibilità.

E tra l’altro questa agricoltura “nuova” è anche quella che ci dà la miglior qualità e che garantisce il nostro piacere alimentare.” (Piero Sardo – Presidente della Fondazione Slow Food per la tutela della biodiversità)

Ma se vogliamo difendere la biodiversità abbiamo bisogno di una cosa fondamentale: difendere le varietà antiche e avere l’accesso ai semi.

Questo naturalmente non viene garantito dall’industria sementiera che si concentra su pochi semi per massimizzare i profitti. E la politica si adegua ai forti.

Così, buona parte degli agricoltori e degli allevatori sono diventati “l’anello intermedio e subalterno dell’industria chimica e dei mangimifici a monte, e delle grandi catene di distribuzione a valle” (P. Bevilacqua). Ma ci sono, anche vicino a noi, contadini fieri e consapevoli del loro ruolo di custodi del patrimonio della diversità genetica. Compriamo il nostro cibo da loro. È in gioco il nostro futuro, non solo alimentare.

Noi, quando ci sediamo a tavola, siamo l’anello finale del processo di produzione del cibo. Tre volte al giorno diamo il nostro giudizio portando in tavola il cibo e sostenendo la sua filiera. Noi tre volte al giorno votiamo.

Immagine di copertina: alcune varietà di mais andino.

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