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Una modesta proposta al Consiglio comunale in ottica di genere

di Sara Marsico

«Nel mondo solo gli uomini e le donne che accettano di essere coperti di ridicolo possono davvero cambiarlo»Ursula K. Le Guin

In tempi di seconda ondata di pandemia scrivere di linguaggio sessuato può sembrare una questione di lana caprina. Si sentono già risuonare le tante obiezioni più volte sollevate: «Ci sono temi ben più importanti, parliamo piuttosto di questioni di sostanza, oppure: non mi interessa declinare al femminile o al maschile. Un lavoro e una professione sono fatti bene da una persona, a prescindere dal genere a cui appartiene». Per non parlare dei risolini e degli sbeffeggiamenti ogni volta che se ne parla sui social, dove la violenza verbale va di pari passo con l’ignoranza di chi la esercita.

Tutti ricorderanno l’ultima campagna elettorale, che vide contrapposte Raffaela Caputo e Lucia Rossi, la prima definita sui manifesti candidata sindaco e la seconda sindaca. In altre competizioni elettorali abbiamo visto addirittura usare ”candidato sindaco” per un nome di donna. In questa sede si vuole ragionare della difficoltà di nominare al femminile alcune professioni o incarichi istituzionali e delle resistenze delle persone al riguardo. Ricordo che la lingua italiana prevede due generi: il maschile e il femminile. Quando il genere femminile si usa per le professioni come maestra o segretaria, da sempre svolte in prevalenza dalle donne, nessuno si stupisce. Quando si passa a nominare al femminile le professioni prestigiose ricoperte da donne, cominciano le resistenze, tra le stesse donne, anche tra coloro che tali professioni le esercitano o che tali incarichi ricoprono.

Perché tanta fatica a usare Ministra o assessora? Perché non dire avvocata o notaia, architetta, direttrice d’orchestra o di un giornale, Questora, Prefetta, chirurga, medica, Rettrice di Università, Capitana di una squadra di calcio, così come si dice poliziotta, carabiniera, arredatrice, scultrice, pittrice e potremmo continuare con altri esempi?

Il problema sta proprio nella resistenza al cambiamento. Abbiamo imparato da piccoli, alle scuole elementari (allora si chiamavano così) l’uso del maschile universale ed inclusivo, abbiamo visto ricoprire certe posizioni solo agli uomini ed altre solo alle donne. Non abbiamo però mai avuto difficoltà a chiamare maestro l’unico docente uomo di scuola primaria in un mondo da sempre popolato da insegnanti donne. La stessa resistenza che si trova nella modulistica scolastica, per cui in un ambiente femminilizzato da sempre troveremo scritto il docente, il coordinatore, il lavoratore.

La società è cambiata, alcune professioni e alcuni incarichi istituzionali oggi sono ricoperti da uomini e donne, quando in passato erano una prerogativa maschile. Declinarli al femminile significa dare visibilità alle donne perché ciò che non si nomina non esiste. Prendendo a prestito le parole di una grande Maestra con la M maiuscola, Lidia Menapace: «Non si usa la sessuazione del linguaggio perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare degne di entrare nella storia in quanto donne, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo dell’oscurità della propria. Questo infatti è il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola: trasmettere la storia sessuando il linguaggio è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere».

La questione del linguaggio non è affatto neutra: è culturale ed è anche una questione di potere. Luisa Muraro, un’altra grande Maestra, afferma: «Se nominiamo al maschile le donne che sono nei posti di comando, che messaggio diamo? Che il femminile è buono per sgobbare (contadina, operaia, commessa…) ma non per dirigere?» Un’obiezione frequente alla sessuazione delle professioni e degli incarichi istituzionali è «Suona male, non si può proprio sentire!»  Se si cominciasse a usarla in più contesti cominceremmo a non avvertirne la stonatura. La lingua cambia e si adatta ai mutamenti attraverso l’uso che se ne fa. L’espressione: «Si è sempre fatto così» è quella che ha sempre rallentato il cambiamento, in ogni campo.

Alcuni segni positivi di questa “rivoluzione copernicana”, come la chiama Danila Baldo, vicepresidente di Toponomastica femminile, cominciano a vedersi nei Regolamenti di alcuni Comuni, come Imola, grazie all’assessora Paola Lanzon, oppure nelle Regioni Emilia Romagna e Sardegna. E qui avanzo una modesta proposta: perché, proprio in occasione della riscrittura dello Statuto Comunale della nostra città non ne approfittiamo per inserirvi il linguaggio sessuato? Ricordo che le assessore Salvaderi e Ravarini hanno condiviso con il Benini nei passati anni scolastici i Progetti sulla parità di genere, nei quali l’uso del linguaggio sessuato era uno dei temi fondamentali.

Per chi ne volesse sapere di più e cominciare ad allargare lo sguardo,  si vedano le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana del Dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri di Alma Sabatini, studiato nei corsi di formazione per docenti fin dal 1987, le posizioni del Parlamento europeo, il disegno di legge del 2014 della Ministra Fedeli, gli studi della prof. Cecilia Robustelli, la posizione dell’Accademia della Crusca sul linguaggio di genere e le indicazioni  rivolte a giornalisti e giornaliste, alle pubbliche amministrazioni, alle istituzioni, all’editoria, alle scuole e alle università sulla sessuazione del linguaggio.

Interessantissimo il Corso Eduopen della professoressa Giuliana Giusti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia sul linguaggio di genere, veramente illuminante e seguito con grande interesse da chi scrive. Per chi fosse interessato, il corso online è attualmente aperto e gratuito, lo trovate a questo indirizzo.

 

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