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25 aprile. Per non dimenticare, la musica nella Resistenza

di Roberto Silvestri

Anche con le canzoni si racconta la storia

Attraverso le canzoni racconteremo l’avventura di una generazione di giovani che hanno imboccato il difficile sentiero della libertà, che hanno scelto la vita partigiana rischiando la loro stessa di vita. Ricorderemo ragazzi che abbandonarono casa e famiglia per andare a combattere, che resistettero alla fame e al freddo. Scarpe rotte e pur bisogna andar.

E sono questi ragazzi che tra un’azione e l’altra, sedendo attorno al fuoco o facendo la guardia nella neve, buttarono giù parole, frasi, rime, che diventeranno le canzoni che ancora oggi cantiamo.

I partigiani hanno fatto la storia non solo con i fucili ma anche cantando, intonando canti vecchi o nuovi, inventando testi e melodie e consegnandoli alla memoria delle generazioni future.

Già, i partigiani cantavano. All’inizio canzonette, arie risorgimentali, melodie popolari, cori militari e motivi antifascisti, poiché la resistenza al fascismo era già ben viva ancor prima di salire in montagna. E canti politici; negli accampamenti echeggiavano vecchi brani socialisti, comunisti o anarchici. Insomma, tutto quello che la cultura musicale dei partigiani, la loro storia e la loro memoria aveva portato in montagna.

Si canta nelle brigate. E le parole pian piano cambiano, si fanno arma di lotta al fascismo, diventano momento di propaganda e collante tra i partigiani. Raccontano storie di lotte e battaglie, diffondono idee, ma soprattutto accrescono l’unità e la fratellanza tra i combattenti.

Nel cantare c’è il senso di appartenenza, l’adesione ad una causa comune, ci sono uomini e donne che combattono ma che anche sognano, desiderano, progettano, vivono. Nonostante l’orrore.

Non solo canti di battaglia riempivano l’aria sui monti della guerra partigiana.

La nostalgia per la mamma e la casa, il desiderio struggente di avere al proprio fianco la propria compagna, il rimpianto di non veder crescere i propri figli rendono tristi le notti e gli uomini. In quelle serate di canti malinconici i comandanti impongono il silenzio, che in guerra ricordi, tristezza e rimpianti tolgono energia, scoraggiano.

Il vento che fischia sulla resistenza porta con sé melodie, parole, canzoni, nuovi canti si diffondono. Ascoltiamoli insieme, basta cliccare sul titolo della canzone.

Fischia il Vento 

Nell’estate del 1944 i reparti partigiani più importanti avevano il loro inno, che definiva i contorni della comunità combattente e serviva a consolidare la solidarietà all’interno del gruppo. Racconta Franco Fortini, poeta e patriota, che nella Repubblica partigiana dell’Ossola era stato indetto un concorso per musicare la Marcia della VI brigata d’assalto Garibaldi.

Secondo lo storico Roberto Battaglia la canzone più nota e importante della Resistenza è Fischia il vento.

Scrisse Beppe Fenoglio che “è una vera e propria arma contro i fascisti […], li fa impazzire a solo sentirla.”

Il testo è opera di un giovane medico ligure, poeta e comandante partigiano, Felice Cascione, u Megu. La musica invece è un’aria russa, Katiuscia, che un altro partigiano Giacomo Sibilla, Ivan, aveva imparata nella Campagna di Russia. Fu cantata per la prima volta nel Natale 1943. Poche settimane dopo u Megu fu ucciso in battaglia. Aveva venticinque anni.

Felice Cascione, u Megu (il medico nel dialetto ligure)Il vento porta con sé le melodie. Premeno è un piccolo paese dell’Alto Verbano e nel territorio di Premeno operava la Volante Cucciolo. Premeno è il paese in cui sono nato. A Tràrego i fascisti hanno barbaramente trucidato sette partigiani della volante e due civili. Fischia il vento si veste di parole nuove, rende omaggio ai martiri e promette di vendicarli.

Siamo i Ribelli della Montagna  

Emilio Casalini, Cini

Nel marzo del 1944 sull’Appennino ligure-piemontese nell’ex convento della Benedicta era insediato il comando della 3ª brigata Garibaldi. Uno dei comandanti era il ventitreenne Emilio Casalini, Cini, con lui c’era Angelo Rossi, Lanfranco, studente di musica.

Ricorda il partigiano Carlo Domenech: Ad un certo punto noi giovani sentiamo la necessità di creare qualcosa che riguardi noi e tutti quanti i giovani della nostra generazione […]. Sarà la nostra storia e traccerà le dure vicende della vita partigiana e gli ideali che la sostengono. […] Cini prende l’iniziativa e un bel giorno comincia a scrivere delle parole su un foglio di carta biancastra da impaccare. […] Noi facciamo circolo attorno a lui proponendo e suggerendo vocaboli e argomenti. Dopo alcuni giorni, la bozza è stesa. In distaccamento c’è uno studente di musica ventenne, Lanfranco, al quale viene consegnato il testo. Questi se lo porta appresso durante il servizio di sentinella sul monte Pracaban. Al ritorno le note sono vergate su un pezzo di carta da pacchi. Siamo i ribelli della montagna  diventa così la nostra canzone, la canzone del Quinto Distaccamento.

Cini e altri 16 partigiani poterono cantare la loro canzone solo per un mese, furono fatti prigionieri e fucilati l’8 aprile.

La Brigata Garibaldi   

Le Brigate Garibaldi erano formazioni organizzate dal Partito Comunista. Alcuni partigiani reggiani scrissero nella primavera del 1944 La Brigata Garibaldi . La musica, di probabile derivazione da una marcia militare ottocentesca, era già stata usata dai fascisti. Il ritmo baldanzoso del canto lo fece presto diffondere tra i giovani che salivano in montagna.

Dai Monti di Sarzana  

Nel carrarese operava invece un battaglione libertario intitolato a Gino Lucetti, l’anarchico che nel 1926 lanciò una bomba a Mussolini, morto poi al confino di Ischia. Dai monti di Sarzana era il loro canto.

La Badoglieide  

È difficile che in una guerra i combattenti trovino la forza dell’ironia per raccontare la loro storia, pure la vitalità della resistenza riuscì anche in questo. La Badoglieide, è la storia cantata del generale Badoglio dai suoi trascorsi fascisti fino alla fuga ingloriosa con il re verso terre sicure. Nuto Revelli ci racconta che nacque, su suggerimento di Livio Bianco e con un lavoro collettivo, alle Grangie di Narbona, in valle Grana, tra il 25 e il 26 aprile del 1944.

Se non ci Ammazza i Crucchi  

Ma la canzone più irriverente, anomala in un contesto di guerra, è Se non ci ammazza i crucchi.  Venne raccolta a Porto Valtravaglia da Dario Fo, o forse fu scritta dallo stesso Fo ispirandosi ad un racconto partigiano. Ne ascolteremo un breve spezzone interpretato da due giganti. Ero in Umbria, alla Libera Università di Alcatraz, ad un incontro tra Carlin Petrini e Dario Fo che, nel minuscolo teatro che c’è all’interno della struttura si sono lasciati andare ai loro ricordi. Questo uno spezzone delle riprese, maldestre, fatte con il telefonino.

Attraverso Valli e Monti   

Le melodie, lo abbiamo già notato, vagano per l’aria e alcune diventano… come dire… buone per tutte le stagioni. Attraverso valli e monti  nasce canto popolare russo diventa inno zarista, passa poi all’armata bianca, da qui si fa bolscevica, in seguito è intonata da ribelli anarchici, e per finire, passando di versione in versione, arriva alla guerra civile di Spagna e ai partigiani di tutta Europa. Era nota in Italia perché trasmessa ogni giorno da Radio Mosca. Era diffusa soprattutto tra i partigiani friulani.

Sutta a chi Tucca    

Sulla stessa melodia Giovanni Battista Canepa, Marzo, commissario politico e capo di stato maggiore della Divisione Garibaldi Cichero scrisse Sutta a chi tucca, sotto a chi tocca in dialetto genovese. La musica si veste di parole nuove, lo abbiamo già visto, e diventa collante per un’altra divisione partigiana.

Ma se la musica si veste di parole nuove i vestiti dei partigiani invece…

Quello partigiano è un esercito di valorosi con divise lacere, raffazzonate, era Un esercito di straccioni al servizio della libertà, come titola un libro scritto da Primo, comandante partigiano.

Scrisse Franco Fortini: “La moda partigiana meriterebbe una descrizione accurata, se non altro per l’ingegnosità che ognuno impiegava a distinguersi. Giacche a vento ritagliate nei teli mimetici, giubbe ricavate dalle coperte da campo, stivali della Wehrmacht o della guerra d’Africa, scarpe da sci, vecchi scarponi chiodati di montanari e berretti alpini della fanteria, colbacchi alla russa, cappellucci alla tirolese, sombreri da film d’avventure. E simboli e segni d’ogni sorta […]. Ognuno portava con sé quante più armi poteva. Le bombe a mano italiane, rosse e nere, penzolavano dalle cinture come salsicce; quelle tedesche, dall’aspetto inoffensivo di manubri di legno, si infilavano nei cinturoni o sbucavano dai sacchi.”  Insomma, ci si arrangiava come si poteva…

Figli di Nessuno 

Sembrano figli di nessuno i partigiani. E Figli di nessuno  è un canto che si diffuse tra le formazioni che operavano tra Liguria e Piemonte. I figli di nessuno a Genova e Vercelli erano gli appartenenti ad una brigata di difesa proletaria e antifascista nata nel 1920 e confluita poi negli Arditi del Popolo

La lotta per la Liberazione si chiude con la vittoria, ma sul campo restano un numero altissimo di vittime: 45mila partigiani uccisi, 20mila mutilati e invalidi, 10mila civili massacrati dai nazifascisti, Dulce et decorum est pro patria mori, è dolce e dignitoso morire per la patria. Questa retorica risorgimentale la ritroviamo in alcuni canti della resistenza. Altri però ricordano i caduti, abbandonando questa ampollosità e i morti tornano ad essere i combattenti al cui fianco si proseguirà la lotta.

Compagni Fratelli Cervi  

Per i sette fratelli Cervi la morte ha vinto la corsa ma nel loro nome la battaglia continuò. Furono catturati, torturati e fucilati. Morirono, come scrisse Salvatore Quasimodo in una sua poesia, tirando dadi d’amore nel silenzio. Compagni fratelli Cervi fu scritto da partigiani della provincia di Reggio Emilia. La melodia ricorda una canzone irredentista.

La famiglia Cervi, foto Di Alcide Cervi – Opera propria

Ai Sette fratelli  i Modena City Ramblers hanno dedicato un loro pezzo.

Pietà l’è Morta   

Itali Calvino definì i partigiani “uomini diventati cattivi a furia d’essere buoni”. Erano uomini, ribelli costretti a rinunciare anche alla pietà. Sull’aria di Sul ponte di Perati i partigiani di Nuto Revelli scrissero collettivamente Pietà l’è morta, che divenne l’inno della I divisione alpina Giustizia e Libertà.

Potete ascoltare lo stesso canto in una bella versione dei Modena City Ramblers

Ribelli contro le perfidie, ribelli per amore di libertà e di giustizia, per amore del riscatto contro l’oppressione, la barbarie, lo spirito di morte. Ciò che colpisce nelle storie dei partigiani sono le motivazioni per cui scelsero di resistere. L’origine della scelta non è quasi mai dichiaratamente politica. Non c’è eroismo, solo un malessere diffuso per le ingiustizie e la violenza del regime che spinge ad agire.

Ha scritto Cesare Bedoni in una lettera alle figlie: “Non ho fatto niente di straordinario. Mi sono comportato secondo coscienza, come cristiano, come avrebbero fatto anche altri, nelle mie situazioni.” Come disse l’Agnese di Renata Viganò: “Quello che c’è da fare, si fa.”

Festa d’Aprile    

In Italia la resistenza ha vinto, il fascismo è sconfitto. È Festa d’aprile. Composta da Sergio Liberovici e Franco Antonicelli nel 1948, è nata dall’elaborazione degli stornelli trasmessi da Radio Libertà, una emittente radiofonica del biellese gestita dai partigiani. Le trasmissioni comprendevano anche una parte musicale eseguita da una piccola orchestra e da un coro che elaborava stornelli, utilizzati come intermezzo nella lettura dei bollettini.  La resistenza ha vinto. Ora bisogna far sì che la memoria di questa lotta non si disperda. Nascono così nuove canzoni, scritte e musicate da partigiani ma al di fuori della guerra partigiana. E, più tardi, composte da antifascisti.

Oltre il Ponte     

Oltre il ponte è una poesia di Italo Calvino messa in musica da Sergio Liberovici. Il poeta parla ad una ragazza “dalle guance di pesca” confidandole le speranze e i pensieri che lo hanno condotto in montagna e il desiderio di farli rivivere nei giovani.

Bella Ciao   

All’appello manca però Bella ciao, a lei spetta di chiudere questa rassegna.  Nasce in montagna ma fu cantata poco e solo nel Nord Italia. La struttura musicale si fa risalire ad una ballata francese del ‘500 diventata poi un canto infantile in Piemonte, propagatosi poi in tutto il nord Italia, fino a diventare canto di lotta delle mondine. O forse no, nasce da una melodia yiddish registrata a New York nel 1919 da un fisarmonicista ucraino. Questa incertezza non ci stupisce, lo abbiamo già detto, la musica è trasportata dal vento ed è difficile ricostruirne i percorsi. Tralasciando la ricerca delle sue radici, la fortuna di questo canto deriva dal fatto che non è, come altri, un testo politico, non inneggia alla lotta di classe o alla guerra civile, è un canto di lotta contro l’invasore e, più in generale, contro le ingiustizie. È diventato un inno alla libertà e dunque un inno universale.

Questa canzone, scritta da gente comune, da semplici partigiani sui monti, nel fango e nella neve, è entrata nel repertorio di importanti artisti di tutto il mondo. E ogni volta si trasforma, con arrangiamenti negli stili più diversi.

Per voi ho scelto una delle versioni più famose, quella dei Modena City Ramblers.

Bella ciao però scende dai palchi e ritorna sulle strade, con i battiti delle mani e le stecche di chi la canta lottando, gridando le sue parole.

Graffito di Berny Scursatone – 2015, Ex Caserma di Via Asti, Temporary, Torino – Foto presa dal sito dell’associazione Monkeys Evolution

Intonati o stonati, in coro o da soli, con accompagnamento musicale oppure a cappella, non importa. Ciò che conta è cantarla, e il mondo canta Bella ciao

Sono una testimonianza questi canti, ancora oggi insegnano, intonarli significa continuare a incidere, lasciare un segno per gli anni a venire, una traccia sempre viva.

Ora e sempre Resistenza!

Immagine di copertina: Firenze, 7 settembre 1944 – Partigiane fiorentine cantano sotto la pioggia alla cerimonia per la consegna delle armi – dal sito www.istoreto.it

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