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Arte, censura e memoria

di Roberto Silvestri

 

Nulla rimane eguale,
si muta il bene in male,
si muta il bianco in nero
ma quel che è stato vero sempre ritornerà.

(Franco Fortini, Tutti gli amori)

 

 

Tutto è mutamento e ogni variazione sposta la percezione delle cose, il tempo cambia le nostre prospettive. Ciò che ieri era cosa usuale o addirittura meritoria oggi diventa esecrabile.

È dunque frequente che azioni o comportamenti, e con essi le loro espressioni esteriori, vengano, con il senno di poi, censurati. E così, statue erette con riconoscenza vengono strappate dai loro piedistalli, immagini orgogliosamente dipinte vengono distrutte.

Da sempre le sculture sono le opere che più si prestano a onorare persone e vicende e a tramandarne la memoria; hanno dunque la funzione di segnare un territorio, un’appartenenza.

Da sempre le statue sono state abbattute a rimarcare un’appartenenza diversa.

Oggi, dopo l’assassinio di George Floyd ad opera di alcuni poliziotti americani, una ventata di orgoglio e di rivendicazione dei più elementari diritti ha investito la comunità nera e gli antirazzisti in tutto il mondo. E ci spinge fino a chiedere l’abbattimento delle statue degli schiavisti.

Nulla di nuovo sotto il sole.

Nel 1915 a Trieste, per protestare contro la nostra entrata in guerra contro l’Austria e la Germani, fu abbattuta la statua di Giuseppe Verdi, che improvvisamente non fu più un compositore ma divenne simbolo del tradimento italiano.

E non ci si limita alle sculture. La condanna della nudità nell’arte religiosa emessa dal Concilio di Trento  cambiò la morale corrente e l’affresco del Giudizio Universale che Michelangelo aveva ultimato solo ventiquattro anni prima diventò, improvvisamente, osceno. Vi fu chi propose di distruggerlo e dobbiamo ringraziare Pio IV se oggi possiamo ammirarlo: il pontefice ordinò che venisse solo censurato e dette incarico di coprirne le vergogne a Daniele da Volterra, per questo poi chiamato Braghettone. Il papa, nato Giovanni Angelo Medici di Marignano, era quasi uno di noi, è quello della bolla del Perdono.

Lo stesso fervore religioso ritroviamo nel 2001 quando i talebani afgani distrussero le statue dei Buddha di Bamyan, ritenute idolatre e contrarie all’Islam.

A questa ortodossia sacra fa da contraltare la distruzione dei simboli religiosi durante la Rivoluzione Francese.

La furia iconoclastica non risparmia, ovviamente, le altre forme d’arte, la letteratura, veicolo di idee, in particolare; dai roghi di libri della Germania nazista alla proposta, meno definitiva, avanzata da un comitato che si batte contro l’antisemitismo e il razzismo: bandire dalle scuole la Divina Commedia perché antigiudaica e antislamica.

Poco tempo fa, a Milano è stata imbrattata la statua di Montanelli, che, volontario nella guerra di invasione fascista in Eritrea, aveva avuto rapporti pedofili con una bambina nera che si era comprato. Sempre aveva poi giustificato questa perversità, giudicandola cosa normale.

Ora contro questo insudiciamento sono insorti proprio quelli che esultavano per l’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad e la distruzione dei monumenti agli eroi della Rivoluzione Sovietica, gli stessi che predicano l’integrità della famiglia.

Salvo sporadici episodi di imbecille teppismo, le distruzioni non sono dovute a critiche sull’opera in sé, non toccano la sfera dell’arte; la valutazione di questi fatti non nasce dalla coscienza di ognuno di noi sull’azione in sé ma si piega al vantaggio politico o morale che può derivarne. È la ragione, invertita, di quando il monumento fu eretto.

La scelta di erigere una statua a Montanelli non fu presa per celebrare un sommo giornalista, ma per premiare e pagare debiti morali a un conservatore che aveva contribuito a diffondere l’ideologia di chi il monumento ha commissionato.

Anche a Melegnano non siamo usciti indenni da questa partigianeria. Nel campo dell’antimafia due persone sono sempre citate insieme come – perdonatemi l’irriverenza – Gianni e Pinotto o Stanlio e Ollio: Falcone e Borsellino. Falcone, magistrato di sinistra e Borsellino di destra. La lotta alla mafia superpartes non trovò però spazio a Melegnano, la giunta di centro destra, di cui faceva parte Fratelli d’Italia, decise di dedicare un parco cittadino al solo Borsellino. Marchiare il territorio.

Di lotta politica stiamo dunque ragionando ed è facile quindi tendere a schierarsi.

Ma possiamo illuderci con questi atti di cambiare la storia e i suoi orrori?

E soprattutto, è giusto cancellare la storia, rimuovere la memoria o non dobbiamo invece raccontarla e spiegarla?

Caravaggio, Céline e Pound non erano bei personaggi, ma nonostante le loro anime nere ci hanno donato frammenti di bellezza.  Cosa guadagneremmo a distruggere le loro opere? Continuiamo ad ammirarne i quadri, a leggerne i libri e raccontiamo gli errori della loro vita.

Durante le olimpiadi romane del 1960 ci si interrogò sul mantenimento delle scritte fasciste sui marmi del Foro Italico. Gianni Rodari, partigiano, propose di tenerle: “Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte.

Questo dobbiamo fare, teniamoci queste opere e non per salvaguardare l’arte, che a volte è totalmente assente. Ma poi pratichiamo concretamente la memoria.

Cosa un poco diversa è quella dell’intitolazione di strade ed edifici.

Difficilmente le storie dei loro nomi si raccontano, sono solo un segno della fama dei personaggi a cui sono dedicati. Risulta quindi difficile raccontarne la storia e tramandare una memoria scevra di partigianeria.

A Melegnano abbiamo una via intitolata a Luigi Cadorna, generale incapace, arrogante, crudele e ingiusto che ha causato la morte di migliaia di soldati per la sua incompetenza.

Lasciamolo tornare nell’oblio e dedichiamo quella strada a un altro Cadorna, Raffaele, generale, comandante del Corpo Volontari per la Libertà.

 

Photo Credit © 2020 Fotografia di Adriano Carafòli

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