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Le parole, le cose e il pensiero

di Roberto Silvestri

Le parole trasformano una sensazione percepita in pensiero e ci consentono di annunciarla al mondo. Descrivono la realtà in cui viviamo e contribuiscono a crearla.

Le parole sono un organismo vivente che si deve adattare al mondo in cui abita. Hanno un carattere collettivo che le colloca tra i valori fondanti di una comunità. Che una lingua si modifichi è dunque cosa normale e auspicabile, ma questa nostra non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, è un cambiamento di epoca.

Cambiare non è però sinonimo di migliorare. A volte si cambia in peggio, questo è ciò che è successo al nostro modo di comunicare.

Molte sono le cause di questo decadimento, credo però che quella più significativa sia stata l’inversione del flusso di scambio tra i differenti ceti sociali

Sono sempre esistite forme di linguaggio differenti, da quello popolare, più essenziale, fino ad arrivare a quello più ricercato, in un crescendo che attraversava le classi sociali. Sulla cima, insieme agli intellettuali, c’erano i politici. Tra i differenti vocabolari c’è sempre stato un flusso dall’alto verso il basso; le persone meno acculturate cercavano di arricchire il proprio lessico. La cultura diventava strumento di emancipazione e promozione sociale e le parole i gradini di una scala per il Paradiso.

Erano gli anni in cui don Lorenzo Milani scriveva: “Un operaio conosce cento parole, il padrone mille. Per questo lui è il padrone” e Dario Fo, portando a trecento le parole conosciute dall’operaio, ce lo ricordava dal palcoscenico.

In Miseria e nobiltà Totò, scrivano preoccupato del suo futuro economico, parla con un contadino che gli chiedeva di scrivere una lettera al nipote:

“Lei è ignorante? “                                                                                                                                                  “Io sì.”                                                                                                                                                                    “Bravo! Bravo! Viva l’ignoranza! Tutti così dovrebbero essere. E se ha dei figliuoli non li mandi a scuola, per carità. Li faccia sguazzare nell’ignoranza.”

Il potere, magari misero come quello di Totò in questo dialogo, si rafforza e cresce nell’ignoranza altrui.

Le parole generano il pensiero. Se conosciamo e usiamo poche parole, il nostro pensiero sarà poco articolato, inadatto a percepire le sfaccettature della realtà in questo mondo in cui le cose interagiscono tra di loro lungo percorsi tortuosi e creano relazioni intricate. Non si riconoscono più le sfumature di colore, vediamo solo bianco o nero.

Oggi il flusso tra i differenti linguaggi sembra essersi rovesciato; un gergo rozzo e approssimativo è stato adottato dalla classe politica, che continua a sapere mille parole ma decide di usarne solo cinquanta. E i ceti popolari non sentono più l’esigenza di migliorarsi culturalmente, non c’è più differenza tra loro e il padrone.

In questo contesto l’intellettuale, così viene percepito chi prova a fare un ragionamento più strutturato, diventa quindi un noioso e detestabile grillo parlante

Le parole ci influenzano, ci guidano nelle scelte. Saperle usare rende facile la manipolazione. I politici più spregiudicati lo sanno, lisciano il pelo alle persone meno preparate o attente utilizzando il loro lessico. Conquistano così consenso e potere.

Slogan urlati, poche parole semplici, idee banalizzate e spesso rafforzate da fandonie. Un nemico è poi fondamentale, diventa il capro espiatorio che accoglie sopra di sé tutti i mali del mondo. Dunque, basta scovarlo e… via, addosso!

Le parole si sprecano con indifferenza. Si dicono cose abiette e violente salvo poi dichiarare che sono state fraintese, che sono state estrapolate dal loro originario contesto. Ci ricorda però Metastasio:

Voce dal sen fuggita                                                                        poi richiamar non vale;                                                                  non si trattien lo strale                                                                quando dall’arco uscì.

Come una freccia tirata da un arco, una parola detta può aprire ferite, non tanto e non solo sulla persona contro cui è stata lanciata ma a tutti coloro che la accoglieranno come verità rivelata, la faranno propria, la rilanceranno provocando, o amplificando, una valanga di astio e rancore.

Però, per abbellire scelte spiacevoli si rispolvera il vocabolario delle mille parole. Inviare truppe armate in zona di guerra si trasforma in un intervento umanitario in difesa della democrazia. Democrazia da esportazione, da imporre ad altri popoli con tradizioni e cultura differenti dalle nostre, come se ciò fosse possibile e, soprattutto, giusto. Ma tant’è, questa patina rosa rende digeribile la missione e i nostri soldati, zaino in spalla e armi alla mano, partono

L’attenzione agli altri, questa visione umanitaria e solidale, cessa però immediatamente quando si rientra nei confini di casa nostra. Chi si dimostra pietoso e caritatevole viene accusato della peggiore delle offese: Buonista! Se restare umani è una colpa, evidentemente la malvagità è diventata una virtù.

Oggi è arrivato il Covid e il linguaggio si fa guerresco. E in guerra si sta zitti e si ubbidisce. Però anche in guerra serve un nemico. Questo maledetto virus è invisibile, non lo si vede, non sembra un vero nemico. Allora parte la caccia agli untori. In un momento in cui abbiamo tutti bisogno di solidarietà, collaborazione, empatia il gergo militare non ci aiuta. Cambiamo linguaggio.

Scriveva Andrej Platonovič Platonov in Čevengur: Finché non dici una parola, non diventi intelligente, perché nel silenzio non c’è intelligenza.

Se nelle parole troviamo la totale mancanza di intelligenza, invochiamo dunque, ogni tanto, il silenzio per tentare almeno di immaginarla.

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