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Miles Davis, The Man with the Horn. Il ricordo di un gigante del jazz

di Alessandro Arioldi

Raccontare la vita di Miles Davis equivale a ripercorrere l’intera storia del jazz: trombettista, bandleader, compositore fra i più geniali di sempre, Miles Davis ne è stato in prima persona uno degli artefici.

Fra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta del ‘900, vi fu una straordinaria proliferazione dei generi musicali jazzistici, che contribuì a generare una complessa mappa di tendenze.

Lennie Tristano divenne uno dei maggiori esponenti del “cool jazz”, etichetta da egli stesso contestata in quanto, da una sua dichiarazione, “Il jazz che suonavamo era rilassato, privo di spettacolarità, era serio e impegnato, ma non era certo freddo”.

L’intonazione classicheggiante del cool impose arrangiamenti elaborati e rarefatte atmosfere ai suoi autori: Gerry Mulligan, John Lewis, Chet Baker, Bill Evans, Jimmy Giuffre, Stan Getz, Lee Konitz tra i principali.

Poco più tardi Art Blakey, Max Roach, Clifford Brown, Horace Silver, Thelonious Monk, Sonny Rollins, Charles Mingus, per nominare alcuni dei fautori, annunciarono lo stile duro che avrebbe incontrato terreno fertile sulla West Coast, l’hard bop, nuova espressione jazz derivata da rhythm and blues, bebop, gospel, blues.

Ad attraversare queste correnti, cresciuto sotto le stelle del bebop e poi sfuggito a ogni inquadramento, fu l’astro sempre in movimento di Miles Davis.

Non esiste, nel mondo del jazz, un altro musicista che, al pari di Miles Davis, sia stato capace di attraversare con la sua tromba molti dei fermenti che via via nascevano sulla moderna scena musicale jazzistica.

Artista sensibilissimo nel cogliere le nuove tendenze, i mutamenti nelle forme dell’espressione, Miles Davis ha compiuto un itinerario quasi unico, muovendo i primi passi nel bebop per approdare al cool, passando poi dall’hard bop al jazz modale, al funk e all’elettronica, rimanendo se stesso all’interno di contesti molto differenti l’uno dall’altro: più che un innovatore, Davis è stato fino alla fine un artista sensibilissimo nel cogliere le nuove tendenze, i mutamenti nelle forme dell’espressione, nel corso della sua lunga carriera musicale.

Figlio di un’agiata famiglia afro-americana, Miles Dewey Davis III, era nato ad Alton, Illinois nel 1926 e dopo il diploma, si trasferì nel 1944 a New York, che per il gran numero di locali, era il centro focale del jazz, in particolare la 52a strada, meglio nota come The Street, era il fulcro della vita notturna.

L’obiettivo del giovane trombettista era frequentare la Juilliard School of Music, ma nella sua autobiografia egli racconta che il suo scopo primario era suonare con Charlie Parker e Dizzy Gillespie, sax alto e trombettista di punta della nuova corrente nascente del jazz.

Infatti Davis ebbe la fortuna di venir chiamato da Parker, entrando diciannovenne nel giro del bebop e di prendere parte alla registrazione storica del novembre 1945, nella quale Parker, con Gillespie, C. Russell e M. Roach, incise capolavori quali Now’s the Time e Ko Ko, definito il manifesto del bebop.

La tortuosità melodica dei boppers, la forte carica drammatica e l’esuberanza della loro musica non appartenevano certo all’universo poetico di Davis, eppure Parker lo volle accanto a sé, probabilmente per valorizzare la varietà interna della musica del quintetto, dove Davis rimase fino allo scioglimento della storica formazione, avvenuta a causa dell’ennesima ricaduta di Parker nel giro dell’eroina.

Nell’estate del 1948 Davis cominciò a frequentare il pianista e arrangiatore Gil Evans, da cui nacque un insolito nonetto e nel quale ne divenne leader.

La formazione ottenne un vivo consenso della critica, ma lasciò freddo il pubblico, impreparato a una musica così diversa dall’espressionismo bop e ricca di sonorità lievi (vennero definite “nuvole sonore”), ottenute grazie all’impasto di strumenti come il bassotuba (da qui il nome di Tuba Band affibiato al gruppo), il corno francese, il trombone, la tromba, il sax contralto e quello baritono, che si muovevano sopra una canonica sezione ritmica con piano, basso e batteria.

Entrati nella sala d’incisione della casa discografica Capitol, sancirono con i loro pezzi la nascita di una nuova estetica, quella del cosiddetto cool jazz, immortalando su disco, con il titolo Birth of the Cool, una delle più affascinanti band della storia del jazz.

Per un musicista nero riuscire a far successo nell’america razzista di quegli anni era veramente dura, quindi è totalmente comprensibile l’atteggiamento distaccato di Miles e la sua continua rabbia.

Dopo una fase buia e di ripensamento, Davis fondò nel 1955 un quintetto destinato a entrare nella storia del jazz, accanto ai Jazz Messengers di Art Blakey, al quintetto di Max Roach e al nuovo fenomeno della tromba, Clifford Brown, divenuti guide per tutti i gruppi hard bop.

La tecnica di Davis era ormai a punto, così come la maturità espressiva; il gruppo da lui riunito era formato dal sax tenore di John Coltrane e da un’inarrivabile sezione ritmica: Red Garland pianoforte, Paul Chambers contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria.

Riavvicinatosi a Gil Evans, dopo aver sciolto nel 1957 il magnifico quintetto perché contrario al consumo di droga da parte dei suoi componenti, Davis realizzò una trilogia superbamente raffinata e lirica: Miles Ahead (1957), Porgy and Bess (1958) e Sketches of Spain (1959-60).

Nel 1957 Miles Davis incise, improvvisando davanti alle immagini che scorrevano sullo schermo, anche la colonna sonora del film Ascensore per il patibolo di Louis Malle, opera che contiene anticipazioni della nuova svolta di Miles verso la modalità.

Con questo concetto, mutuato dall’antica musica greca e da quella ecclesiastica medievale, si poteva evitare la costrizione dei giri armonici, che dall’avvento del bebop in poi avevano condizionato l’espressività jazzistica.

Si improvvisava tenendo conto delle scale e non degli accordi, ottenendo una particolare libertà di costruzione melodica e una maggiore linearità.

Per dar voce a questa musica, Davis aveva riunito nel 1958 di nuovo Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones, affiancando loro il giovane altosassofonista Julian “Cannonball” Adderley, John Coltrane, maturato moltissimo grazie all’esperienza nel quartetto di Monk, e il pianista bianco Bill Evans che, avendo già frequentato la musica modale con Charles Mingus attorno alla metà degli anni Cinquanta, fu capace di portare il suo leader su una strada feconda e carica di prospettive.

Tra marzo e aprile del 1959 venne registrato il magnifico Kind of Blue, ritenuto il miglior disco di Davis e uno degli album più belli e importanti di tutta la storia del jazz.

Negli anni ’60 e nei primi ’70, l’ammirazione di Davis per innovatori come Jimi Hendrix e Sly and the Family Stone, lo portò a mescolare jazz, rock e funk e introdusse strumenti elettrici nel gruppo che nel 1969 aveva riunito: Wayne Shorter (sax soprano), Chick Corea e Herbie Hancock (pianoforte elettrico), l’organista viennese Joe Zawinul, il chitarrista inglese John McLaughlin, Dave Holland al contrabbasso e Tony Williams alla batteria.

I due album più significativi di questo periodo, con i quali Davis volle riconquistare il grande pubblico giovanile, furono In a Silent Way e Bitches Brew.

Quest’ultimo ridefinì il campo della musica contemporanea e influenzò intere generazioni di musicisti e di ascoltatori; era ancora jazz?

Si parlò del capostipite di un nuovo genere musicale, che fondeva le sottigliezze improvvisative del jazz con l’energia del rock, in brani insolitamente estesi.

Visionario, psichedelico, progettato come un’opera musicale innovativa e allo stesso tempo, pianificato come un grande successo commerciale, Bitches Brew fu il risultato di una serie di esperimenti durati alcuni anni, in cui la visione artistica di Davis si scontrava con gli interessi discografici, contando sulla sottile mediazione del produttore e compositore Teo Macero; il disco segna la nascita del jazz rock e apre la strada al fenomeno della fusion.

Rimane nel pensiero di noi appassionati ascoltatori di musica, l’affascinante storia della mancata collaborazione tra due delle più luminose stelle afroamericane dell’universo musicale, Miles Davis e Jimi Hendrix.

Che genere di suoni avrebbe prodotto, quali ispirati intrecci compositivi sarebbero scaturiti dall’unione artistica di un grande conoscitore della cultura jazz e di un creativo innovatore della rock-guitar?

Purtroppo un tragico destino ci ha sottratto la possibilità di dare risposte, causa la tragica e prematura scomparsa del chitarrista mancino di Seattle e più volte, negli anni, Davis avrebbe confidato ad amici e collaboratori, che il mancato progetto con Hendrix, era il solo rimpianto della sua vita.

Nel corso della sua carriera musicale, Davis aveva sperimentato direttamente sulla sua pelle la violenza della polizia, in quanto vittima di un’aggressione, nell’agosto del 1959, proprio di fronte al Birdland, leggendario club di New York, dove si esibiva col suo leggendario sestetto.

L’ennesima prova per Davis che se sei nero non c’è giustizia e il suo già difficile caratteraccio peggiorò ancora di più.

Spesso definito sprezzante ed egocentrico, Miles aveva in effetti costruito attorno a sé una corazza che lo faceva apparire agli occhi degli “altri” un uomo arrogante.

Ma quella corazza e quel suo essere burbero erano modi per riuscire ad affrontare e a contrastare con coraggio proprio il razzismo imperante negli Stati Uniti.

A causa della sua personalità irrequieta, grossi problemi di salute di ogni tipo, rapporti umani sempre più tesi e una ricaduta nella tossicodipendenza e nell’alcol, nel 1975 Miles Davis si ritira dalle scene e si richiude in se stesso, vittima della depressione.

Rimane per cinque anni lontano dalle scene, tutti lo danno per finito, ma si sbagliano.

Pensavano che non avrebbe mai ripreso a suonare, ma nel 1980 tornò con un disco, The Man With the Horn e una band nuova.

Incurante dei critici e dei puristi del jazz, attraversa tutto il decennio, lanciandosi in ogni tipo di contaminazioni con le sonorità più nuove: il funk, il pop, l’elettronica, di Prince e Michael Jackson, eseguendo con la sua personale, impronta originale, cover di due brani famosi di Cyndi Lauper e dello stesso Michael Jackson; nel tempo libero si dedica, con successo, anche alla pittura.

Il pubblico non lo abbandona e l’ultima incarnazione del grande genio del jazz è, a sorpresa, quella della pop star; Davis continua a suonare sui palchi di tutto il mondo, con formazioni in costante avvicendamento, fino a pochi mesi dalla morte.

Il 28 settembre 1991 un attacco di polmonite mise fine alla carriera di un musicista che ha lottato con la musica, reinventando un genere, trascinandolo fuori dalla ghettizzazione dei locali di New York, per portarlo alle mostre d’arte, nei salotti dei bianchi e facendolo diventare così, simbolo di connubio tra due culture; la sua salma riposa nel cimitero di Woodlawn, nel quartiere Bronx di New York.

Nelle sue ultime due registrazioni, entrambe uscite postume, per l’ennesima volta si avvicinava a un nuovo genere musicale, l’acid jazz, che fonde funk e rap al suono jazz.

Il virtuosismo non fu mai una delle chiavi espressive di Miles Davis, diceva che era preferibile togliere, anziché mettere e ciò fece sì, che la sua personalità interpretativa dominasse quasi ogni altra considerazione.

Probabilmente Miles Davis affermò in musica il suo urlo contro il razzismo bianco.

La foto di apertura è di Jeff Sedlik (1989; fonte artmajeur)

 

 

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