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Resilienti si diventa. Intervista a Pietro Trabucchi

Intervista a cura di Massimo Acanfora, di Altreconomia

Pietro Trabucchi insegna “Psicologia della prestazione e dello sport” all’Università di Verona. È stato psicologo in varie Squadre Olimpiche: Sci di Fondo (Torino 2006), Triathlon (Sydney 2000) e Canottaggio (Rio 2016). Segue da anni le squadre nazionali di Ultramaratona. Dal 1999 è stato il responsabile della preparazione psicologica dei team di varie spedizioni alpinistiche destinate ad operare in ambienti estremi. Ha trasferito le esperienze con le spedizioni e con gli atleti di élite nelle organizzazioni e nelle aziende per proporre metodologie innovative sulla gestione dello stress, la facilitazione della motivazione nel gruppo, lo sviluppo della resilienza. È appassionato praticante di discipline di endurance, corsa e alpinismo. Vive in Valle d’Aosta. www.pietrotrabucchi.it

 

Trabucchi, qual è il suo approccio alla resilienza?

«Mi occupo da sempre di sport di resistenza e la mia personale definizione del termine deriva da questa peculiare esperienza: se parliamo infatti di “resilienza psicologica” questa è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontrano sul cammino. Sono peraltro anni che studio la resilienza sotto i suoi diversi aspetti e più di recente sono arrivato in particolare a collegarla alla “teoria della motivazione” che ho sviluppato in Opus, il mio ultimo libro (Corbaccio). Oggi vedo la resilienza in una dimensione soprattutto motivazionale. Nell’attuale dibattito si parla infatti moltissimo di motivazione e resilienza, ma spesso ognuno gli attribuisce un significato arbitrario. Nel mio libro ho cercato invece di elaborare un modello basato su tanti lavori di estremo interesse, pubblicati da numerosi neuro scienziati negli ultimi 10 anni. Oggi si conoscono sempre più dettagli concernenti le funzioni del nostro cervello legate alla motivazione. Magari la gente non leggerà le riviste scientifiche, ma gli studi vanno avanti lo stesso. La resilienza è quindi profondamente collegata con la motivazione, anche da un punto di vista fenomenologico. La persona resiliente in prima battuta non si fa demotivare dalle difficoltà, dall’incertezza e da altre condizioni che fermano le persone comuni».

Questa riflessione si può trasporre dallo sport alla vita lavorativa di chiunque e ad altri tipi di “squadre”?

«Sì, Opus del resto parla anche di sport, ma con un basso dosaggio rispetto al precedente Resisto dunque sono (Corbaccio) e ad altri. Il modello neuro scientifico che il libro propone non è stato ricavato ovviamente dal cervello dell’atleta ma si è partiti dallo studio dei comportamenti dei primati fino ad arrivare all’uomo. Il cervello dell’atleta ha sì degli adattamenti dovuti all’attività motoria, ma resta un caso particolare. La resilienza è qualcosa che ci appartiene in quanto esseri umani nella nostra globalità e unità».

Nello stesso modo in cui la motivazione spinge a essere resilienti, si può dire che un gruppo di persone può assumere delle scelte intenzionali improntate alla stessa forma mentis?

«La risposta è sì. Per esempio può esistere – e ne abbiamo tante esperienze – anche una resilienza di gruppo, o se vogliamo di team. In modo ancora più ampio possiamo legarla a un’organizzazione e a un’intera comunità più o meno vasta, ad esempio alle realtà lavorative. Ci sono infatti aziende resilienti (e oggi ce n’è davvero bisogno) mentre altre

lo sono molto meno. Noi, in qualche modo, essendo animali sociali, nella nostra motivazione veniamo influenzati – più che dai cosiddetti motivatori che sono ai confini con la magia – da quello che fanno gli altri, nonché dalle credenze, dai valori e dalla cultura che ciascun contesto esprime e implementa. Questo concetto l’ho sviluppato anche in modo personale nell’attività sportiva: in altri libri racconto infatti delle esperienze fatte con gruppi che partecipavano a spedizioni alpinistiche e polari, circostanze dove è molto facile capire quanto conti l’aspetto della resilienza perché ci sono livelli di stress estremamente alti ed è facile risultare demotivati e quindi anche gli atteggiamenti contano molto. Le leve di tipo relazionale, oltre che individuale, sono importantissime. È una lezione anche per le aziende, dove conta, tra l’altro, la leadership, ma solo se ne facciamo un buon uso»«.

Questo concetto si può estendere a livello macro, leggi a livello di politica e di gestione della cosa pubblica?

Certo. Pensiamo ad esempio ai leader politici globali di oggi e a quanta poca resilienza dimostrino nel loro comportamento. La motivazione, dicono infatti le neuroscienze – qui semplifico molto il concetto -, è un modello bifattoriale: da un lato c’è un aspetto molto arcaico, che è legato alla motivazione che abbiamo in comune con gli animali, e che è essenziale perché è legata al piacere e al desiderio ed è sempre presente quando abbiamo una pulsione. Però c’è anche un aspetto, che è quello di saper rimandare la gratificazione e di poter controllare una serie di impulsi istintuali. Nello sport l’atleta più resiliente è quello che sa superare questi diktat che ci lancia la nostra parte più arcaica e va contro l’istinto. Per prendere un caso classico, la fatica è un messaggio delle parti più arcaiche del nostro cervello che ci invitano a non sprecare energia, primariamente per poter sopravvivere. Il più forte mentalmente è chi – senza ‘saltare’ – riesce a ignorare questo messaggio. Tornando alla politica, oggi invece prevale ed è a volte fuori controllo – basta guardare Trump o anche alcuni nostri politici – l’aspetto ‘rettiliano’ puro, quello arcaico, cosa che viene poi esasperata e moltiplicata dall’uso dei social. Saper mediare tra impulso e azione è invece proprio il fattore opposto, fortemente connesso alla resilienza, è un vero e proprio filtro di controllo su questi impulsi».

Che parte ha in tutto questo quello che chiameremmo etica? O comunque un fattore che ci spinge a cercare il bene per noi stessi ma anche il “bene comune”.

«Ha una parte importante. Nel concetto di etica si può trovare un’oggettività quasi biologica, dal mio punto di vista. L’etica è in questo senso proprio il freno dell’aspetto rettiliano, quello che chiede l’immediata gratificazione, la soddisfazione del nostro istinto. Il nostro cervello, dai tempi preumani ad oggi, ha infatti aumentato la capacità di dilazionare la gratificazione, filtrando la parte istintiva. Chi sacrifica la propria vita per un ideale o per gli altri ha una grande capacità di posporre questa soddisfazione immediata, dilazionandola in modo perfino astratto (la vivrò nell’aldilà o attraverso la vita che ho salvato o la vivranno le generazioni future e così via). Questo meccanismo non è ‘dato’ per tutti i viventi, ce l’hanno solo alcuni mammiferi. In un certo senso la resilienza è il suo sviluppo».

Perché gli umani intesi come comunità mondiale fanno così fatica a comprendere quello di cui ci sarebbe bisogno per fermare alcuni drammatici trend globali, primo fra tutti il climate change? Una resilienza globale è possibile o può funzionare solo nelle comunità più piccole?

«Nell’uomo c’è una dicotomia, che non è fondata su un’astrazione di tipo religioso ma legata a necessità evolutive. Lo abbiamo visto: abbiamo una parte più primitiva e istintiva che è molto utile per la nostra stessa sopravvivenza ma che spesso va tenuta a freno, cosa che non sempre è semplice. Anche la capacità di saper vedere le conseguenze a lungo termine, ad esempio che le mie azioni quotidiane possano ricadere sulle generazioni future, è un concetto tutt’altro che scontato e molto moderno- Il tema diventa che la parte arcaica ed egoistica ce l’abbiamo tutti già ben implementata, a partire dalla nascita, come il neonato che strilla per ricevere il seno materno. L’aspetto più corticale, invece, più legato alla resilienza e alla capacità di filtrare queste cose, non è concesso gratis ma va allenato: se la cultura e l’educazione non ti aiutano a trattenere l’impulso e ti spingono a soddisfare subito tutte le aspettative, è chiaro che questa parte non si sviluppa. Perciò la gente sarà molto fragile sotto questo aspetto».

La resilienza allora potremmo dire nasce da una parte innata, ma si sviluppa con la cultura e con la capacità di rimandare la gratificazione a beneficio di un altro tempo, di un’altra epoca e di un’altra generazione?

«Sì, è la parte che ci consente di vedere le cose con una prospettiva temporale o spaziale – se pensiamo al nostro pianeta – più vasta, invece di pensare solo al nostro tornaconto immediato. Non è scontato perché per decine di migliaia di anni siamo sopravvissuti, dal punto di vista animale, perché focalizzati su questa modalità».

La resilienza allora si può insegnare e, dall’altra parte, apprendere?

«La resilienza la puoi apprendere e allenare. Io cerco di fare proprio questo: insegnare agli atleti ma anche nelle aziende e con interventi di tipo educativo. Resilienti non si nasce, ma si diventa. E si può fare qualcosa per allenare la propria resilienza. A livello collettivo lo può fare anche un’organizzazione o una comunità. Secondo me è la società

nel suo complesso che non lo fa più. Una volta infatti le persone erano più resilienti, perché tale ti rendeva lo stile di vita e la società stessa. Questo, almeno nella parte occidentale del mondo, in questa società dei consumi e postindustriale, non viene più fatto. Puoi farlo da solo, certo, ma nessuno verrà a bussarti alla porta per insegnartelo».

Quindi paradossalmente una società dei consumi, in cui la soddisfazione dei bisogni è sempre più compulsiva e immediata, è una società che potrebbe aver smarrito una parte della propria capacità di resilienza?

«Certo. È una società che riduce la resilienza. Ci sono dei fattori che descrivo nel mio libro ‘’Tecniche di resistenza interiore’ che parla proprio dei fattori culturali, sociali e individuali che riducono la resilienza. Spiego che cosa ha diminuito la nostra resilienza. Ad esempio la cultura digitale e il proporre tutta una serie di modelli che non considerano come importanti l’impegno, ma solo fattori come la fortuna, la genetica, il talento e così via».

La partecipazione alla vita collettiva, il prendere parte, l’essere presenti di persona può essere un fattore importante per sviluppare resilienza “sociale”?

«La partecipazione diretta è assolutamente importante. Come è noto, sono molto critico – anche se commercialmente non mi converrebbe – verso il mondo dei social, perché sono convinto che sia uno dei fattori che ha fatto molto regredire la nostra capacità di resilienza negli ultimi anni».

 Intervista pubblicata su “Fare Resilienza” (Altreconomia; 2020)

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