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Da Vizzolo alla Silicon Valley. La carriera di Marina Codari, ingegnere biomedico

intervista di Pietro Mezzi

Non è stato facile intervistare Marina Codari. C’è voluto un po’ di tempo e soprattutto i buoni uffici del papà.

«Sì, è vero. Ma la colpa è mia: sono restia a parlare di me in pubblico, anche perché non penso che la mia storia professionale sia tale da meritare di essere raccontata».

Eppure, la storia di una giovane donna che a soli 33 anni è ingegnere biomedico, ha insegnato come docente a contratto alla Statale di Milano, ha svolto parte del suo dottorato all’università KU Leuven in Belgio, ha svolto ricerca prima al gruppo ospedaliero San Donato, poi al Politecnico di Milano e, fino a qualche mese fa, alla Stanford University in California ed ora è Senior Manager di un’emergente azienda privata, qualche motivo per essere raccontata forse c’è.

Per conoscere il suo percorso lavorativo e di vita, 20zero77 qualche settimana fa l’ha raggiunta nella sua casa di Menlo Park, cittadina della Bay Area di San Francisco. Una località poco distante da Palo Alto, dove ha sede il campus di Facebook, nel cuore della Silicon Valley.

Marina è di Vizzolo, dove ha vissuto per tanti anni con mamma Valentina, papà Massimo e la sorella Fiammetta, ha studiato a Vizzolo, poi a Lodi e infine a Milano, dove si è laureata e dottorata.

Ha vissuto con Andrea a Milano e ora condivide con lui la permanenza negli Stati Uniti, perché insieme hanno deciso di trasferirsi dall’altra parte dell’Oceano.

«Siamo partiti per gli Usa il 28 dicembre 2019, poche settimane prima dello scoppio della pandemia – racconta Marina – e da allora non siamo più riusciti a tornare. Fino a qualche tempo fa, prima del recente sblocco delle restrizioni, per ritornare qui dall’Italia avremmo dovuto passare quindici giorni in un altro stato prima di entrare negli Usa. E qui i giorni di ferie non sono tanti. Insomma, il nostro esordio statunitense è stato contrassegnato da questa vicenda. Come ci siamo arrivati? Andrea lavora per un’azienda medicale tedesca, con sede a Milano e quartiere generale negli Stati Uniti.. A lui è stato chiesto di lavorare qui. A quel punto abbiamo deciso di trasferirci. Qui, le nostre qualifiche sono valutate diversamente, sia sul piano economico che della qualificazione. Qui, c’è produzione e ricerca. Ci siamo detti che forse valeva la pena provare a lavorare nella Silicon Valley».

Mentre per te, com’è andata?

«È stato semplicissimo, quasi imbarazzante, se lo paragoniamo a ciò che accade nel nostro Paese quando si cerca lavoro»

E sei finita alla Stanford University della California…

«Lì ho lavorato un anno e otto mesi. È stata un’esperienza anomala. Nel campus sono rimasta solo qualche mese e poi il Covid ci ha costretti, sia io che il mio compagno, a lavorare da casa. A parte questo, mi sono trovata molto bene. Lo scorso luglio ho addirittura vinto una borsa di studio di quasi 150 mila dollari messi in palio dall’American Heart Association».

Ma che lavoro fa un ingegnere biomedico?

«Mi sono sempre occupata di diagnostica per immagini. Ho lavorato in campo informatico e sviluppato algoritmi di analisi delle immagini. In campo radiologico il mio lavoro consisteva nel valutare l’effetto dell’integrazione di questi software con la pratica clinica. A Stanford invece ho fatto parte del team di radiologia cardiovascolare. Mi sono sempre occupata, anche al Poli, di sviluppare nuovi metodi per l’analisi delle immagini. Quando ero in ospedale ho continuato a fare quello, ma focalizzandomi sulla traslazione di queste tecnologie nella clinica medica. Questo mi ha reso un ingegnere biomedico atipico: negli anni ho imparato il linguaggio dei radiologi, profondamente differente da quello degli ingegneri».

Poi hai scelto il privato. Come mai?

«È stata una storia talmente causale da non crederci. Un amico mi ha segnalato un annuncio di ricerca di personale. Il profilo chiesto corrispondeva al mio. Ho provato e dopo pochi colloqui sono stata assunta. A Stanford avevo un contratto a termine, per cui ho colto l’occasione di lavorare in un centro dell’innovazione tecnologica della Silicon Valley. Ho amato la parte accademica del mio lavoro e non sarei andata via dall’Italia se non avessi avuto una buona opportunità. Qui, è tutto diverso. Le offerte di lavoro sono tantissime e trovare lavoro, per figure qualificate, non rappresenta un problema. Qui si lavora parecchio. I giorni di ferie e di malattia non sono tanti. Se si è giovani e se si vuole fare carriera questo è il luogo perfetto. Questo è un ambiente dinamico e le opportunità non mancano. Stanford è certo un’eccellenza, ma il Politecnico di Milano rimane sempre un posto speciale».

E ora di cosa ti occupi?

«Mi occupo ancora di diagnostica per immagini. Ora sono Head of Clinical Evidence di Arterys, una società tecnologica di San Francisco che si occupa di diagnostica per immagini e intelligenza artificiale».

E la scelta di ingegneria come si spiega?

«Sono decisamente più portata nelle materie scientifiche. Addirittura, terminate le medie, avrei voluto fare l’Itis. I miei genitori mi hanno consigliato il liceo e così è stato. Al termine delle superiori si è posto un’altra scelta: ingegneria biomedica o medicina? Disciplina quest’ultima che mi ha sempre interessato, ma una cosa mi era chiara: non avrei mai potuto fare il medico. L’ingegneria biomedica invece mette insieme la mia passione per la medicina e la tecnologia. Per la laurea magistrale ho preferito specializzarmi in bioingneria elettronica, con particolare attenzione alla diagnostica per immagini. In quel campo, a mio avviso, c’è ampio spazio per la creatività. Poi mi piaceva l’idea della tecnologia capace di sollevare l’uomo dalla fatica e dai suoi limiti».

E come ti trovi a Menlo Park?

«Bene. L’ambiente assomiglia molto alla zona delle ville di Vizzolo: case unifamiliari, con giardino, abitate da persone che lavorano primariamente a Stanford o a Palo Alto».

Menlo Park è infatti una delle città più istruite della California e degli Stati Uniti. Dove vivono Marina e Andrea, infatti, quasi il 70 per cento dei residenti di età superiore ai 25 anni possiede una laurea.

Che rapporto hai con l’ambiente in cui sei cresciuta?

«Sono cresciuta a Vizzolo, poi ho abitato qualche anno con i genitori a Lodi, dove ho fatto il liceo. Presto sono andata ad abitare con il mio compagno a Milano. Forse è per questo che le mie amicizie sono decisamente sparpagliate. Ho molti amici e amiche a San Donato e a Peschiera Borromeo, dove per undici anni ho fatto la volontaria in Croce Rossa».

La tua casa quindi, qual è?

«Milano, direi. Lì ho fatto l’università, conosciuto Andrea, la mia vita da sola l’ho fatta lì e poi con lui c’ho vissuto. Credo anche che ci sposeremo a Milano. Vizzolo invece è la casa della famiglia».

E con i tuoi genitori?

«È stato un periodo molto strano, per me, per noi, per tutti. Non vedo i miei, se non attraverso videochiamate, da quasi due anni. Li sento tutti i giorni, soprattutto mia mamma. È una sensazione strana questa lontananza. Diversa dalla mia precedente esperienza in Belgio. Da lì si poteva tornare ogni tanto. Qui, la pandemia ci ha costretti a una separazione innaturale».

E il tuo futuro come lo vedi? Rimarrai a Menlo Park?

«Non lo so e non lo sappiamo. Non pensiamo di rimanere qui per sempre. È un posto bellissimo, dove si impara e si apprende tanto. Vogliamo vivere il presente. Al momento, ciò che pensiamo è di ricavare il massimo da questa esperienza e di farne tesoro».

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