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L’ospedale di comunità di Melegnano. Discutiamo del contenuto, non solo del contenitore

di Pietro Mezzi

Tra qualche anno Melegnano ospiterà uno dei 71 futuri ospedali di comunità previsti nel territorio lombardo dalla nuova legge di riforma sanitaria regionale, che recepisce i contenuti del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La delibera della giunta regionale del 15 dicembre scorso ne ha anche stabilito l’ubicazione: sorgerà sull’area comunale di via San Francesco, compresa tra le vie Campania e Lazio.

Ospedali di comunità e case di comunità (nel territorio della città metropolitana di queste ultime ne sono previste 71) sono la risposta all’esigenza, emersa in modo drammatico durante la fase più acuta della pandemia, di disporre di una medicina di prossimità.

L’emergenza sanitaria vissuta, infatti, ha messo in evidenza la necessità di avere presenze sanitarie territoriali alternative agli ospedali. Con la pandemia il sistema basato sulla centralità ospedaliera è andato pesantemente in crisi. In Lombardia in modo particolare, non così da altre parti, ad esempio in Emilia-Romagna, Lazio e Veneto, regioni che nel tempo hanno saputo organizzare la loro risposta sanitaria basata su forme diversificate, territoriali, come ad esempio le Case della salute della vicina Emilia-Romagna.

Cosa sono le Case di comunità

Le Case di comunità (Cdc) sono le nuove strutture socio-sanitarie che entreranno a fare parte del Servizio sanitario regionale e sono previste dalla legge di potenziamento per la presa in carico di pazienti affetti da patologie croniche.

Le Cdc, distribuite sul territorio lombardo (218 in tutto), costituiranno un punto di riferimento continuativo per i cittadini, che potranno accedere gratuitamente alle prestazioni sanitarie erogate. Si tratta di strutture polivalenti, che una volta in funzione garantiranno assistenza sanitaria primaria e attività di prevenzione. All’interno di queste strutture saranno presenti equipe di medici di medicina generale, pediatri, medici specialisti, infermieri e altri professionisti della salute (tecnici di laboratorio, ostetriche, psicologi…) che opereranno in raccordo anche con la rete delle farmacie territoriali.  Qui sarà possibile trovare un punto unico di accesso, accoglienza, informazione e orientamento del cittadino.

Affinché questo servizio funzioni davvero serve un altro fondamentale ingrediente: la partecipazione dei cittadini, in quanto tali.

Vale la pena qui ricordare cosa dovrebbero essere le Case di comunità o per meglio dire le Case della Salute, così come le ha definite per primo il medico Giulio Alfredo Maccacaro, fondatore di Medicina Democratica.

La Casa della Salute è il luogo della partecipazione dei cittadini e delle forze sociali organizzate, del coinvolgimento delle municipalità; è il luogo di ascolto e di individuazione dei bisogni. È al tempo stesso il luogo della programmazione degli interventi e delle decisioni relative ai servizi e alle strutture. La Casa della Salute è il luogo dell’informazione e dell’educazione sanitaria, ma anche uno spazio dove gli utenti si possono riunire e formare gruppi di mutuo-aiuto. La Casa della Salute non è una formula predefinita: la sua costruzione richiede da subito il coinvolgimento della comunità”.

Cosa sono gli Ospedali di comunità

L’ospedale di comunità, come prevede la legge nazionale, “…è una struttura di ricovero breve che afferisce al livello di assistenza territoriale per pazienti che necessitano di interventi sanitari a bassa intensità e che necessitano di assistenza-sorveglianza  sanitaria e infermieristica continuativa anche notturna, non erogabile a domicilio…”. L’ospedale di comunità sarà dotato di un numero limitato di posti-letto: da 15 a 20.

Il problema del personale

Si tratta, per gli ospedali e per le case di comunità, di progetti complessi (il primo più del secondo), che richiedono un ingrediente fondamentale per funzionare: il personale medico e infermieristico. Risorse umane e professionali di cui siamo come Paese, proprio in questa fase, estremamente carenti. E questo, tenuto conto delle mancanze ormai strutturali del sistema lombardo e nazionale per quanto concerne il personale, rappresenta il punto debole su cui regge l’intera riforma sanitaria lombarda.

In un contesto di questo tipo, è quindi molto probabile l’ingresso delle strutture private in questo particolare mercato del lavoro sanitario.

Nella foto, medici e infermieri del reparto Covid del pronto soccorso dell’Ospedale Civico di Palermo, durante un turno di lavoro (Photo Francesco Militello Mirto/LaPresse November 11, 2020 Palermo)

Conoscere i bisogni di salute del territorio

Tassello importante di una strategia sanitaria attenta alle esigenze della popolazione è la conoscenza dei bisogni del territorio che una struttura sanitaria deve soddisfare. Tutto ciò nel dibattito pubblico attuale è assente. Analizzare ad esempio l’attuale composizione della popolazione del nostro territorio, compiere indagini epidemiologiche (che rappresentano il principale strumento di politica sanitaria pubblica), evidenziare i problemi neuropsichiatrici della popolazione studentesca, sono azioni fondamentali di una strategia che parte dal bisogno di salute della popolazione. Uno strumento, quello dell’indagine epidemiologica, che la sanità lombarda ha dimenticato di utilizzare, nemmeno nei casi conclamati degli effetti dell’inquinamento ambientale sulla salute (vedi ex Chimica Saronio). Servirebbe invece partire dalla mappatura dei bisogni di salute per offrire agli ospedali di comunità le indicazioni di come strutturarsi e attrezzarsi per rispondere alle esigenze vere della popolazione. Ricette antiche? Può darsi, ma sempre valide in quanto sono alla base della sanità pubblica.

Il contenuto e il contenitore

Oggigiorno il dibattito, anche locale, si è concentrato quasi ossessivamente sul contenitore: dove e come realizzare l’ospedale di comunità, come arrivarci, il traffico indotto eccetera.

Il problema principale, fanno notare gli esperti, è un altro. È il contenuto: cioè come far funzionare queste nuove strutture socio-sanitarie a fronte della carenza strutturale di personale sanitario, in Italia e nella nostra regione. È nota la mancanza ad esempio di ginecologi nei consultori, come di medici di base. Se non si parte da qui, da quale risposta occorre dare ai bisogni di salute della popolazione, si rischia di compromettere l’intera operazione.

Il contenitore di Melegnano

Qui da noi si parla quasi esclusivamente del contenitore ospedale di comunità (tranne lodevoli eccezioni che da sempre si occupano di sanità nella nostra Regione, vedi Medicina Democratica e il Coordinamento Salute Melegnano Martesana). Uno di questi è il sindaco di Melegnano, che rivendica il risultato di aver indicato all’Ast (Agenzia di tutela della salute) l’area di via San Francesco come sede dell’Odc.

Si tratta di un modo di affrontare il tema unicamente dal punto edilizio – del contenitore appunto e non del contenuto – non anche da quello socio-sanitario. Ma realizzare un ospedale di comunità non può essere solo un problema di pilastri e solai. La politica deve saper fare un salto di scala e misurarsi con il problema del futuro funzionamento di questa nuova struttura sanitaria e con i problemi strutturali della sanità lombarda, quali appunto la carenza di personale. Non basta sbandierare un risultato (peraltro discutibile) come un raggiunto successo: occorre saper esprimere un pensiero politico compiuto, capace di guardare oltre.

La legge regionale prevede tre possibilità di intervento nella realizzazione degli ospedali di comunità: la costruzione ex-novo (quando nella zona non esistano strutture adeguate); la riqualificazione di edifici esistenti (allorquando sussistano edifici ben posizionati e adeguati allo scopo si procede alla riprogettazione dei loro spazi interni e all’eventuale ampliamento delle strutture); la riorganizzazione delle funzioni di un edificio esistente. Il modello funzionale della Regione prevede: l’ottimizzazione degli spazi interni; la modularità; la replicabilità e la realizzazione; l’immagine unitaria e omogenea.

La scelta (discutibile) della localizzazione

L’area comunale di via San Francesco, considerata da alcuni la scelta giusta (sindaco in testa), apre la riflessione su un altro aspetto dimenticato nel dibattito pubblico odierno: vale a dire la possibilità di localizzare l’odc all’interno di una struttura socio sanitaria esistente. Come è il caso dell’edificio (pare in comproprietà di Asst e Ats) di via 8 Giugno, nel quartiere Giardino, che da sempre ha ospitato servizi sanitari e che è ampiamente sottoutilizzato.

Si tratta di una struttura degli anni Settanta, ma che si presenta ancora in buono stato e che avrebbe bisogno di un intervento di riqualificazione edilizia ed energetica. È una struttura difficilmente accessibile, obietta qualcuno. Anche questo è un problema risolvibile in tempi rapidi, agendo da un lato sul sistema attuale di gestione della sosta e dall’altro trasformando a parcheggio pubblico l’area privata adiacente dell’ex distributore di combustibili (basterebbe un progetto di opera pubblica in variante al Pgt).

Se si optasse per quest’ultima soluzione, l’area comunale di via San Francesco potrebbe avere un’altra destinazione: non si consumerebbe suolo libero e si potrebbe destinare l’area a forestazione urbana, come chiesto da tempo dal Laboratorio un Albero in Più.

Qualcuno deve spiegare

Qualcuno poi (e non può che essere il sindaco da un lato e la dirigenza dell’Asst dall’altro) deve spiegare pubblicamente – si sottolinea pubblicamente – quali sono, se ve ne sono, i motivi ostativi che impediscono di ospitare l’ospedale di comunità all’interno dell’edificio di via 8 Giugno. Non è pensabile che una scelta così importante non venga portata all’evidenza pubblica e che le motivazioni non vengano rese pubbliche. Come è noto poi un intervento di ristrutturazione è sicuramente un intervento più economico rispetto a quello ex novo ipotizzato sull’area di via San Francesco.

Il Piano nazionale ripresa e resilienza

Va ricordato infine che la Missione 6 del Pnrr, che si occupa di salute, stanzia risorse per acquisire beni e servizi, non prevede fondi per nuovo personale. Un problema che rimane irrisolto anche nel Pnrr.

I soldi del Piano nazionale ripresa e resilienza sono tanti, certo. Ma è compito della politica e della mano pubblica amministrarli, come recita peraltro la legge, secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità.

A Melegnano siamo sicuri che sia proprio così?

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