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Di salami, caci e uova – 2a puntata

L’impatto degli allevamenti intensivi sul nostro pianeta.

di Roberto Silvestri

Nella puntata precedente (link) abbiamo parlato degli allevamenti intensivi, dei trattamenti innaturali e dei maltrattamenti inferti agli animali che, vale la pena di ricordarlo, sono definiti esseri senzienti dalla Costituzione Europea.

Il problema di questi di allevamento però non è solo etico. Questo modo di produrre il cibo ha un impatto pesante anche sulla salute del nostro pianeta.

Quando pensiamo all’inquinamento istintivamente immaginiamo lunghe file di auto che intasano le nostre strade. Sì, certo, ma non è solo così.  In Europa l’allevamento del bestiame è responsabile del 17 % delle emissioni di gas serra, più di quelle prodotte dal settore dei trasporti. Tra gli altri inquinanti di origine antropica produce il 37% del metano (più dannoso della CO2)che proviene dai processi digestivi degli animali e il 65% di ossido d’azoto, originato dal letame.

È vero che l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi resta nell’atmosfera solo per decine di anni mentre quello originato dai combustibili fossili rimane per secoli, ma, se non iniziamo a limitare anche questo tipo di emissioni, il cambiamento climatico non si arresterà.

Ma lasciamo perdere lo sguardo sul mondo e guardiamo nel nostro piatto.

Una piccola bistecca, un etto di carne ha prodotto 3,64 Kg di anidride carbonica, quella prodotta da un’automobile che percorre 25 Km.

Anche in questo caso noi possiamo fare qualcosa.

Una parte dell’impatto negativo legato agli allevamenti deriva dal viaggio degli animali. Non parlo di transumanza o di monticazione, gli animali di cui parlo non viaggiano sulle loro gambe ma a bordo di automezzi, con il loro contributo aggiuntivo all’inquinamento.

Quando facciamo la spesa leggiamo le etichette, ci aiutano a capire cosa stiamo comperando. Su quelle della carne bovina (simili anche quelle di carne suina o di pollame) troviamo l’indicazione del paese o dei paesi in cui l’animale è nato, è stato allevato, macellato e sezionato. Nel 2019 abbiamo importato 800mila bovini e 352mila tonnellate di carne fresca o congelata. Senza contare suini, ovini, pollame.

Oggi sono di gran moda le carni di provenienza estera; Aberdeen Angus scozzese, Angus argentino, manzo di Kobe giapponese, Hereford irlandese… animali che quasi sicuramente sono stati allevati in modo non intensivo, rispettoso del loro benessere, ma per i quali l’impatto del trasporto è ancora maggiore.

Mega allevamento di maiali nel cremasco. Foto di © Adriano Carafòli

Ci ricorda Tim Lang, professore di politica alimentare alla City University di Londra, che un chilo di Angus che viene dalla Argentina in aereo percorre 12.000 Km, consuma 5,4 Kg di carburante e lascia dietro di sé una scia di 16,2 Kg di CO2.

Questo problema non riguarda solo i prodotti alimentari di derivazione animale. Si calcola che i cibi sulla nostra tavola hanno viaggiato mediamente per 1.500 km.

Per ogni caloria di cibo prodotta ne consumiamo 3 per la produzione e 7 per la conservazione, l’imballaggio ed il trasporto. Un rapporto profondamente deficitario.

Noi possiamo fare qualcosa, compriamo il più possibile locale.

Ma ritorniamo nel nostro allevamento intensivo, pieno di animali concentrati in piccoli spazi, e proviamo a pensare alla quantità di escrementi prodotti, certamente eccessiva per i terreni su cui potrebbero essere utilmente sparsi. 

Abbiamo trasformato in un rifiuto tossico quello che per il contadino era una risorsa importante, il letame come nutrimento per il terreno.

In Italia la “produzione” di deiezioni è stata stimata, per il 2001, in 19.000.000 tonnellate.

Le feci, che contengono residui di medicinali, metalli pesanti ed agenti patogeni, vengono sparse sui terreni e inquinano le falde acquifere.

E se i livelli superano i limiti di legge … beh, nessun problema.

La Lombardia, regione in cui si alleva un numero di suini pari alla metà del totale nazionale, ha chiesto ed ottenuto una deroga alla direttiva comunitaria sui nitrati agricoli nelle acque. Nessuna eccezione però al rischio che abbiamo noi cittadini di ammalarci per gli inquinanti, la natura quella deroga a noi non la concede.


Deforestazione in Mato Grosso: Pedro Biondi / ABr, CC BY 3.0 BR, via Wikimedia Commons

Per potenziare gli allevamenti industriali vengono disboscate le foreste, naturalmente not in my back yard, non nel cortile di casa mia. In Amazzonia il 70% delle aree disboscate è adibita a pascolo per le bistecche degli americani o coltivata a soia per i pastoni dei suini cinesi. La distruzione di un polmone verde fondamentale per la respirazione del pianeta e la conseguente perdita di biodiversità serve a consentire il consumo di carne in altri paesi.

Altro aspetto critico è quello dei consumi idrici, di cui il 70% è dovuto all’allevamento ed all’agricoltura, quest’ultima in massima parte destinata all’alimentazione animale. Ogni etto di carne che mangiamo ha avuto bisogno di duemila litri d’acqua, 100 volte di più di quella che servirebbe per produrre la stessa quantità di grano.

Non è ancora finita, ma anche questa volta ci fermiamo. Appuntamento alla prossima puntata, se avrete la pazienza di continuare a leggermi.

Nel frattempo, mangiamo meno cibi di derivazione animale e scegliamoli bene.

Continua…

Immagine di copertina: Spaghetti alla carbonara classica di gaku su flickr.com

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