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Verso il 2 giugno. Le Costituenti / 2 – Adele Bei

di Sara Marsico

Se c’è una caratteristica che connota l’esistenza di Adele Bei (4 maggio 1904 – 15 ottobre 1976), è di essere stata una precorritrice dei tempi.

Prima di essere una Costituente è stata un’antifascista convinta, capace di scegliere molto presto da che parte stare e di opporsi ad un regime autoritario, anche a rischio della vita.

Nata in una famiglia numerosa, di simpatie socialiste, tra le montagne marchigiane, a Cantiano, della montanara porta i segni nella forza d’animo e nella resistenza che accompagna tutta la sua vita.

Gioviale e operosa, terza di undici figli, con un padre boscaiolo, costretta ad abbandonare la scuola dopo la terza elementare per fare l’operaia, partecipa convinta al biennio rosso e scopre in sé una forte passione politica.

Conosce Domenico Ciufoli, taglialegna, tra i fondatori del Partito comunista con Gramsci, Bordiga, Secchia e Terracini e lo sposa nel 1922, a soli 18 anni. I due sono accomunati dalla grande speranza di lottare contro le disuguaglianze, ma alla fine del 1923 devono fuggire dall’Italia, vivendo per anni tra Belgio, Lussemburgo e Francia. In questo esilio Adele dà alla luce i figli Ferrero e Angela, ma la maternità non la dissuade dalla militanza antifascista.

 

Bei ritorna spesso in Italia per mantenere i contatti con i compagni di partito e per distribuire materiali antifascisti, collaborando con il Soccorso rosso.

É decisa ad entrare in clandestinità e perciò affida i figli alla Casa internazionale per l’infanzia di Ivanovo, in Urss, che ospita i bambini dei dirigenti comunisti colpiti dalla repressione.

Chissà quale disapprovazione avrà comportato la sua decisione di affidare ad altri i propri figli per potersi dedicare a ciò in cui credeva, così come era permesso ad ogni uomo.

Nel 1933 Adele è arrestata per attività sovversiva e condannata dal Tribunale speciale a diciotto anni di reclusione, perché ritenuta «socialmente pericolosissima».

Durante il processo i giudici fascisti provano a minare il suo equilibrio ricordandole i figli lontani, ma lei risponde: «Non pensate alla mia famiglia, qualcuno provvederà; pensate invece ai milioni di bambini che, per colpa vostra, stanno soffrendo la fame in Italia».

Questo rifiuto della mistica della maternità, intesa come unica funzione della donna e la scelta dell’impegno politico e antifascista, rendono Adele Bei più contemporanea che mai.

Durante il periodo passato in carcere, durante il quale legge moltissimi libri, si fa una cultura e impara a parlare in modo convincente e appassionato scrive una testimonianza, in cui ricorda che «coloro che ci vivevano attorno si stupivano del sano comportamento di noi politiche: spesso veniva il vecchio parroco a trovarmi nella mia cella e mentre egli faceva una specie di interrogatorio sulla nostra vita mi diceva: «Figlia mia, chi vi dà questa grande serenità e questa forza d’animo per sopportare una vita simile?». «È la mia tranquillità di coscienza, padre» (Episodi di vita in un carcere femminile, Il ponte, rivista diretta da Piero Calamandrei, marzo 1949).

Dopo il carcere è inviata al confino a Ventotene, dove conosce Di Vittorio e dall’isola rientrerà nel 1943 dedicandosi alla Resistenza e svolgendo il ruolo di collegamento tra le Brigate partigiane e i Gruppi di difesa della donna.

Staffetta partigiana sul Monte Tancia, diventa abilissima a muoversi con cautela, ad evitare i pedinamenti, a nascondersi e a sfuggire ad un altro arresto.

Nel 1945 torna in Russia a rivedere i figli dopo 11 anni e li riporta in Italia. Rivede anche Ciufoli, di ritorno dal campo di concentramento di Buchenwald, ma ormai la loro storia è finita e si separeranno. Anche per questa scelta Adele pagherà, mai completamente capita dalla figlia.

Dopo la guerra Bei è responsabile della Commissione femminile nazionale della CGIL, che la nomina alla Consulta nazionale. Farà anche parte dell’Udi.

Il 2 giugno 1946 è tra le 21 madri costituenti e con loro contribuisce a portare il punto di vista femminile nella Costituzione.

Nel 1948 diventa senatrice del Pci, nel 1953 e nel 1958 è eletta alla Camera.

Si dedica alla parte più sfruttata della società, occupandosi delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nei luoghi di lavoro, soprattutto al Sud, delle assicurazioni e della previdenza sociale.

Dal 1952 al 1960 dirige il sindacato nazionale delle tabacchine, lavoratrici a cottimo, sfruttate in condizioni bestiali, al limite della sopportazione, da padroni ricchi e avidi, sottopagate e con contratti puntualmente disapplicati, tutto questo, come dirà in una seduta parlamentare, con la connivenza governativa

Insiste e ottiene di cambiare nome al “Sindacato Nazionale dei Lavoratori delle foglie di tabacco”, perché l’universale maschile non corrisponde alla reale composizione del sindacato, né in termini di sesso (si tratta in prevalenza di donne e il nome non rende loro giustizia, condannandole all’invisibilità) né di rispetto per il lavoro operaio di una parte consistente delle aderenti.

Tra Bei e le tabacchine si crea un legame profondo in cui la dirigente sindacale infonde alle lavoratrici la consapevolezza dell’importanza della loro attività e del loro valore come persone e ne rafforza l’autostima.

La formazione politica e sindacale delle donne è una costante del suo impegno civile. Anche all’interno del sindacato mette in evidenza le sue qualità di leader, la sua umanità, le sue capacità organizzative e aggregative nonché la sua forte autonomia, non sempre apprezzata in un sindacato a prevalente composizione maschile.

Dopo aver lasciato gli incarichi parlamentari e sindacali continua il suo impegno nell’Anppia, l’associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti.

La sua lunga permanenza nel carcere fascista la spinge a diventare attivista per la difesa delle donne detenute e il miglioramento della loro condizione carceraria, in linea con il principio di rieducazione della pena previsto dalla Costituzione.

Adele Bei mostrerà sempre una grande capacità di visione, sia per le tematiche e le battaglie a cui si dedica, sia, cosa per nulla frequente per l’epoca in cui vive, perché vuole convintamente farsi chiamare senatrice e si rivolge alle lavoratrici usando il femminile previsto dalla lingua italiana.

Queste le motivazioni dell’assegnazione della Croce di guerra al valor militare, con il grado di capitano a una delle donne più libere e coraggiose della Resistenza: «Animata dai più puri sentimenti di giustizia e di libertà, fin dall’inizio si distingueva per il suo spirito intrepido e per la capacità organizzativa. Nel suo compito di dirigente delle formazioni femminili fu valido ausilio ai combattenti, fiancheggiandoli efficacemente nella lotta contro l’oppressione ed accorrendo personalmente là ove fosse necessaria la sua presenza incitatrice senza badare a rischi e pericoli».

La storia di Adele Bei può essere un valido esempio per le nuove generazioni e per le ragazze in particolare: per le sue scelte e il suo coraggio, per avere combattuto gli stereotipi e la mentalità fascista che la relegavano e incatenavano al ruolo di “fattrice”, per le sue doti organizzative e l’insofferenza alle gerarchie, così estranee all’animo femminile, per le sue capacità oratorie e per la sua semplicità, per la sua attenzione al linguaggio.

Per questo e per molto altro ad Adele Bei dobbiamo dire tutte e tutti grazie.

In apertura, Adele Bei in un comizio a Vibo Valentia

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